I luoghi senza “connessione” (inteso come ‘segnale’) vengono considerati “fuori dal mondo”, sono invece gli unici che dovrebbero considerarsi a pieno titolo “nel mondo”


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Una verità da quasi nessuno riconosciuta come tale …
E tante altre verità si possono trovare nell’interessante post che segue e che vi invito a leggere nonostante non sia brevissimo.

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Ci raccontiamo sempre che i cellulari, i social o più in generale la tecnologia siano in credo di farci connettere con gli altri. E’ invece vero l’opposto. Questi strumenti sono inevitabile causa di distacco.

La prima connessione che è necessario perdere per essere convinti di un qualcosa del genere è quella con sé stessi.
Siamo arrivati a considerare più o meno sullo stesso piano (o addirittura la stessa cosa) una chiacchierata, dei gesti d’affetto, degli sguardi e delle conversazioni via messaggio, delle emoticons.
Una vita in cui quasi tutti passano più tempo a guardare lo schermo piuttosto che la realtà. Perché di questo si tratta di fatto, di scegliere se guardare lo schermo o se guardare la realtà: entrambe le cose non si possono fare contemporaneamente. Si potrebbe dire in questo senso che più siamo “connessi” e meno di fatto lo siamo veramente.

Un mondo popolato da alienati non rende l’alienazione un pregio.
Non dovrebbe essere necessario elencare ed esaminare i disturbi che questa impostazione causa all’essere umano per capire che è enormemente nociva. La cosa preoccupante è che più vi stiamo a contatto, più includiamo mentalmente questi aspetti nell’insieme di cose inscindibili dalla vita stessa, più ne diventiamo quindi dipendenti e più siamo destinati ad esserne succubi.
Infatti quando un nuovo prodotto della tecnologia viene introdotto nella società viene presentato come un’opzione, senza però rimanere necessariamente facoltativo.
Questi prodotti ci cambiano, cambiano il nostro modo di soddisfare bisogni e di relazionarci a quello che chiamiamo “il resto”, passano da scelta facoltativa a necessità ed eliminano ogni altra possibilità di scelta.
In molti casi finiscono per cambiare l’intera società, in modo tale che essa venga concepita e costruita in modo che includa implicitamente queste tecnologie, in cui l’individuo non può che adattarsi e conformarsi.
Possono insomma diventare il fondamento della società nel suo complesso, divenendo implicate in processi fondamentali e da cui tutti sono dipendenti, fino al punto in cui ci si ritrova praticamente costretti ad usarle.

C’è poi tutta una serie di connessioni di fondo che vanno perdute.
La connessione con la natura diviene inesistente. Infatti siamo inconsapevoli o indifferenti rispetto a tutto ciò che è inevitabilmente necessario fare ai fini della costruzione tecnologica: distruzione di habitat e della vita che li abita, inquinamento atmosferico, interferenza con gli ecosistemi ed in generale con i cicli vitali.
L’impatto è semplicemente devastante, di dimensioni inimmaginabili.
Questo è valido sia per tutte le catene di montaggio che coinvolgono l’utilizzo della tecnologia sia, ovviamente, per gli oggetti tecnologici in sé.
Basti pensare che per ogni computer prodotto, oltre a tantissime altre cose, occorrono circa 20000 litri d’acqua.
Questo è valido per tutta la tecnologia. Per quanto ci si sforzi di affiancare parole contrastanti, ossimori, come tecnologia verde o tecnologia sostenibile, non può esistere una realtà ecologica e tecnologica allo stesso tempo, perché i due termini si contraddicono.
Siamo in uno stato di collasso ed è veramente ora che ce ne rendiamo conto.
Per ottenere energia è sempre necessario innanzitutto considerare la natura come una somma di risorse e poi sfruttarla.
Anche per ottenere “energia pulita” serve tanta energia non pulita.
Per ottenere biocarburanti ad esempio è necessario radere al suolo foreste millenarie per sostituirle con impianti per la produzione di olio di palma, di cocco, di girasole.
Per ottenere energia geotermica bisogna sventrare le crosta terrestre con delle trivellatrici, non certo fatte di energia o materiale pulito.
Per ottenere l’idrogeno, che non esiste in natura, bisogna scindere gli atomi di idrogeno da quelli dell’ossigeno che sono nell’acqua, cosa per cui è necessario utilizzare ettolitri ed ettolitri d’acqua oltre che tanta altra energia, necessaria per scindere le molecole.
Per costruire le pale eoliche ci vogliono plastica ed alluminio, quindi giacimenti di petrolio e miniere di bauxite, con sventramento del terreno e consumi da un punto di vista ecologico giganteschi, più la colonizzazione ed uccisione degli indigeni che abitano quelle terre.
Per i pannelli solari ci vuole alluminio, ci vuole coltan, ci vuole silicio, quindi miniere, devastazione ambientale e sfruttamento umano.

Illudersi che un sistema che avanza con il consumo di tutti e di tutto sia sostenibile significa essere degli illusi. Così come è ingenuo sottovalutarne le conseguenze.
Non viviamo più in una realtà dove i pericoli sono alla nostra portata, ma in una in cui sono divenuti impercettibili.
Anche ciò che è invisibile è distruttivo, come ad esempio le nanopolveri di cui è piena l’aria, oppure ciò che non siamo più in grado di distinguere col gusto, come i pesticidi e gli additivi chimici che passano nella nostra bocca tutti i giorni, o ciò che per il nostro olfatto è sempre meno un campanello d’allarme, come le esalazioni di centrali nucleari o a carbone, le radiazioni, le onde elettro-magnetiche, campi energetici, le smart-dust, i fumi delle fabbriche e degli inceneritori, i gas di scarico.

Si perde la connessione empatica verso gli altri esseri viventi.
Come si è detto prima, si uccide la vita che abita gli habitat, parliamo quindi di piante, insetti, animali, comunità non-civilizzate.
In più accettiamo che persone in contesti molto più difficili del nostro vengano obbligate – non si può usare un altro termine se si vuole essere onesti – a lavorare per 16-18 ore della loro giornata nelle miniere e nelle fabbriche per produrre i nostri cellulari, i nostri computer, i nostri pannelli fotovoltaici, etc.
Parliamo di luoghi dove tantissime persone muoiono o tentano il suicidio, dove gli individui, messi sotto ricatto dai meccanismi dell’economia, devono vivere un’esistenza infernale che li porterà ad ammalarsi ed alla morte.
Tutto per garantire il nostro tecno-mondo.
C’è qualcuno che sarebbe disposto a svolgere queste attività per ottenere un nuovo telefonino? Ovviamente no, ed è per questo che oltre che di privilegio parliamo di vera e propria schiavitù.

Per come e dove siamo cresciuti, è ovvio che siamo portati a concepire come molto utili degli strumenti come l’elettricità, l’acqua del rubinetto, il gas, il telefono.
Tuttavia, questa serie di progressi se presa nel suo complesso è responsabile di una realtà in cui la vita dell’uomo (e non solo) non è più nelle sue mani o nelle mani di qualcuno vicino, ma in quelle lontane dei politici, dei dirigenti di grandi imprese, dei tecnici e burocrati che come individuo non può assolutamente influenzare.
Si perde quindi la connessione con ciò che le nostre azioni implicano, la responsabilità individuale.
I privilegiati del mondo che possono permetterselo, interagiscono direttamente ed unicamente con il prodotto finale, non avendo possibilità di rendersi pienamente conto delle attività a cui prende parte, che includono depredazione ambientale, schiavitù e lavori forzati, ricatto economico, inquinamento, manutenzioni, costruzioni degli strumenti ausiliari per rendere l’apparato tecnologico interconnesso e funzionante, etc.

Non si è più coinvolti in questi aspetti, ed anche quando c’è un tentativo, il confronto non coinvolge certamente etica, comprensione, analisi dall’esterno, ribaltamento dei presupposti e discussione delle premesse, ma solamente tecnica, competenza, efficienza, precisione.
Rimane poi il fatto che non è per nulla semplice mettere in dubbio ciò su cui si basa la nostra mentalità e sopravvivenza per via di abitudini e cultura.
Finché erano i re, gli imperatori, i latifondisti a sfruttare la schiavitù ed a stravolgere gli equilibri ecologici, appariva tutto come inaccettabile, ma oggi, grazie alla tecnologia, siamo tutti coinvolti in questo processo e già siamo convinti che tutto sommato, non è così grave … e poi come faremmo senza?

Quindi, ricapitolando parliamo di uno strumento che: ci rende dipendenti, alienati, meccanici, irresponsabili/indifferenti, meno empatici, meno critici, più intossicati; interferisce profondamente con i cicli naturali ed implica enorme degradazione delle forme di vita.
Una presa di coscienza responsabile dovrebbe allora fermarsi, riconoscere il problema e mettersi man mano sempre più in condizione di riconoscere le influenze che la tecnologia ha sulla nostra vita ed in particolare sulla nostra mentalità, in modo da potersi ripensare e riuscire a fare sempre più senza ciò che fino ad oggi siamo portati a considerare come irrinunciabile.
E’ l’unico modo per diffondere il dissenso e la necessità di cambiamento, per rendere i meccanismi della società sempre meno coercitivi e basati sulla tecnologia.
Senza una seria presa di coscienza ed un serio dissenso verso un problema identificato in maniera chiara, tutti i processi a seguire che dovrebbero avere luogo nel tempo ed a seconda delle singole e collettive situazioni, non sono neanche lontanamente possibili ed anzi, saranno sempre più scoraggiati e meno considerevoli.
Se anziché sentirci personalmente attaccati notando le nostre inevitabili incoerenze (derivanti da un vissuto che non abbiamo scelto) ci iniziassimo a lavorare su, dando loro peso anziché ignorandole, cominceremmo a liberarci della mentalità che le tiene in piedi, ad essere un po’ più indipendenti, a sentirci meglio.
A quel punto cambierebbe qualcosa.

Pensando a tutta la questione la cosa più paradossale è che nella mentalità moderna, che si legge anche attraverso il suo linguaggio, sono proprio i luoghi più a contatto con la natura e senza “connessione” (/segnale) che vengono considerati “fuori dal mondo”, quando sono invece gli unici che potrebbero considerarsi nel mondo.
Li consideriamo tali perché la concezione di mondo che abbiamo ora è questa, una vita sempre più mediata, sempre più artificiosa, sempre meno calda e svuotata di relazioni spontanee.

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Immagine e (grandioso) testo tratti da Mosca Bianca 

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questione di atteggiamenti


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“[…] … l’atteggiamento economico ha sostituito l’atteggiamento etico, l’uomo ha cominciato a pensare a se stesso come separato dalla Natura, il suo obiettivo non è più la saggezza ma la conoscenza che domina il mondo;
così, l’atteggiamento economico, l’aumento dei bisogni, tende ad aumentare la dipendenza da forze esterne su cui l’essere umano non può avere il controllo e ciò aumenta la sua paura esistenziale”

Ernst Friedrich Schumacher

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Immagine e testo tratti da   Tiziano Terzani, ecologia e decrescita

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il Mondo è un’opera d’arte … trattalo con cura


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Immagini (molto eloquenti) di Pubblicità Progresso tratte da   BeBetter

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Il mondo è un’opera d’arte che ha subito (e continua a subire) i danni derivanti dall’incuria dell’Uomo.
Occorre fare presto e sperare che non sia già troppo tardi per dare inizio ai ‘restauri’ che sono ormai indispensabili.

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La tecnologia che non ci fa pensare : ‘Non basta munire tutti gli abitanti delle più grandi tecnologie possibili se nessuno sa, compreso gli inventori, come usarle in modo efficace. Invece di progredire con questi mezzi potentissimi, si regredirà più velocemente di quanto si avrebbe fatto senza.’


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Leggi qui l’articolo >>>  La tecnologia che non ci fa pensare – Benvenuti su gazzettafilosofica!

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Cinema, TV e telefonino: la vita è altrove


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Parafrasando Jean Renoir, potremmo dire che stiamo vivendo nel tempo della grande evasione; anche se filosofi, sociologi, psicologi e psicanalisti ci dicono e ci ripetono che la nostra vita è qui e ora, e frotte di psicoterapeuti, di maestri spirituali, di esperti di Yoga e di meditazione trascendentale spiegano ai loro pazienti e ai loro discepoli che bisogna vivere hinc et nunc, la verità è che non c’è forse mai stata un’epoca della storia in cui, come ora, la vita degli uomini sia stata altrove (parafrasando questa volta Milan Kundera).
Magari fossimo qui, coi piedi ben piantati sulla terra e lo sguardo rivolto innanzi: niente affatto, siamo sempre da un’altra parte; con l’avvento dell’informatica, in particolare, siamo costantemente altrove.
Perfino mentre camminiamo per la strada, perfino mentre guidiamo l’automobile, perfino mentre siamo seduti a tavola coi familiari o gli amici, in realtà siamo altrove: siamo in compagnia del nostro telefonino, stiamo inviando o ricevendo messaggi da qualcun altro, che si trova da un’altra parte (e forse, ironia delle cose, a pochi metri o a pochi isolati di distanza da noi).
Stiamo navigando in rete: ma cos’é la rete, se non un altrove virtuale, cioè l’altrove per eccellenza? E in quell’altrove siamo continuamente immersi: i bambini vanno a dormire col loro telefonino sotto il cuscino, sempre acceso, non si sa mai che arrivi un messaggio e non se ne accorgano, sarebbe una tragedia inespiabile. E chi ha messo in mano a un bambino di sei, sette anni un telefonino di ultima generazione, dal quale non sa più staccarsi, né di giorno né di notte, né quando mangia, né quando dovrebbe dormire? Chi, se non i suoi genitori, cioè quelli che, in teoria, dovrebbero aiutarlo a crescere, a scoprire il mondo (quello vero, possibilmente) e a conquistare la propria autonomia? I quali genitori, a loro volta, si sentono persi se non sono presenti sui social, se non hanno centinaia di “amicizie” virtuali, se non si scambiano con qualcun altro ogni pensiero, ogni fatto, ogni minima circostanza della vita, compreso l’invio delle foto delle pietanze che hanno ordinato al ristorante? Sicché si va al ristorante e si vedono persone singole, o anche coppie, intente non a mangiare, e tanto meno a discorrere fra loro, ma a fotografare in tutte le maniere possibili il proprio piatto di pastasciutta, la propria bistecca e le proprie patitine fritte o la propria verdura cotta (sino a farle diventare completamente fredde, e naturalmente senza scambiare una parola con anima viva), e inviarle a qualche misteriosa entità che, all’altro capo del cellulare, evidentemente si entusiasma nel ricevere in tempo reale e nel contemplare quelle immagini, e ne gode come se si trattasse di ammirare un Rembrandt o un Caravaggio – o, almeno, così suppone che avvenga colui che le manda.

Questo progressivo e metodico straniamento dal mondo e da noi stessi, consumato sull’altare della nuova divinità tecnologica, il telefonino (e, in misura minore, il cinema e la televisione) nasce, sì, dalla frammentazione e dalla complessità della società moderna rispetto a quella tradizionale, nella quale vivevano ancora, in larga misura, i nostri genitori e soprattutto i nostri nonni; ma è anche il risultato di una precisa politica culturale condotta dalle élite moderniste dell’Occidente, impegnate a smantellare, uno dopo l’altro, i valori tradizionali e, nello stesso tempo a modificare l’autocoscienza delle singole persone, convincendole di esser fragili, inadeguate, a meno che si affidino totalmente alla scienza, per riceverne benessere e protezione (ad esempio mediante le vaccinazioni preventive contro questa o quella possibile infezione microbica).
Che la vita degli uomini sia labile, inafferrabile, “altrove”, e che sia fatta della stessa sostanza dei sogni, è un’idea tipicamente moderna: non a caso quest’ultimo concetto è stato formulato da Shakespeare, nella Tempesta, al principio del XVII secolo, cioè nel pieno della Rivoluzione scientifica.
Una simile idea sarebbe apparsa anomala e aberrante a un uomo medievale: non se ne trova traccia in nessun filosofo o scrittore del medioevo cristiano; si affaccia solamente al principio dell’Umanesimo, con Petrarca, il quale scopre quel doppio uomo che è in lui, e pretende di riallacciarsi all’interiorità Sant’Agostino. E invece nelle Confessioni di Sant’Agostino vi è, sì, il senso della piccolezza umana e del mistero che aleggia al di sopra di tutto ciò che è noto, e anche quello della sua stessa, personale fragilità, ma non vi è affatto l’idea che l’uomo, in quanto creatura, sia fragile e che la vita sia un enigma indecifrabile, ma tutto al contrario, vi è la chiara consapevolezza che la vita è l’opera che Dio ci ha incaricato di portare a buon fine, ritornando a Lui.

Parlando degli effetti del cinema, ma il discorso si può estendere, e a maggior ragione, alla televisione, al computer e al telefonino, osservava il saggista e filosofo tedesco-americano di origini ebraiche Siegfried Kracauer (nato a Francoforte sul Meno nel 1889 e deceduto a New York nel 1966) nel suo libro Film: ritorno alla realtà fisica (titolo originale: Theory of Film, New York, Oxford University Press, 1960; traduzione dall’inglese di Paolo Gobetti, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 266-268):

La vita come forza –quale si afferma, per esempio, nelle poesie di Walt Whitman e, forse, di Émile Verhaeren – è un concetto d’origine relativamente recente.
Sarebbe interessante cercar di seguire l’evoluzione di questo concetto, dall’epoca, diciamo, dei romantici, attraverso Nietzsche e Bergson, sino ai nostri tempi (…) Troviamo, in primo luogo, il sorgere della moderna società di massa e la contemporanea disintegrazione di credenze e tradizioni culturali che avevano stabilito tutto un insieme di norme, affinità e valori, secondo cui gli uomini dovevano vivere. Può darsi che il corrodersi degli impulsi normativi c’induca a concentrarci sulla vita come loro matrice, come loro sostrato sotterraneo.

In secondo luogo, viviamo in un’”epoca di analisi”, il che significa, tra l’altro, che nell’uomo moderno il pensiero astratto tende a prevalere sull’esperienza concreta.
Whitehead, per citarne uno, si rese benissimo conto che la conoscenza scientifica è assai meno comprensiva dell’intuizione estetica e che la parola da noi tecnologicamente domina soltanto una parte della realtà accessibile ai sensi, al cuore.
Il concetto di vita può anche indicare questa realtà che trascende l’anemico mondo spazio-temporale della scienza. È significativo che, dal materiale della sua intervista, Wilhelm concluda che uno degli effetti di elevazione prodotti dal cinema consiste nel permettere a coloro la cui sensibilità è stata resa ottusa dal predominio del pensiero tecnologico e analitico di riprende con la “vita” un contatto “sensoriale e immediato”. Si definisce così’ precisamente il tipo di realtà che sfugge a ogni misurazione. (…)

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Ma come soddisfano i film i desideri dell’individuo isolato?
Questi fa pensare al “flâneur” dell’Ottocento (con cui ha altrimenti ben poco in comune) nella sua suscettibilità ai fenomeni passeggeri della vita che riempiono lo schermo.
Secondo il testimone a nostra disposizione, è il loro fluire che più fortemente lo colpisce. Insieme ai fatti frammentari a essi legati, questi fenomeni – tassì, edifici, passanti, oggetti inanimati, volti – stimolano probabilmente i suoi sensi, provvedendogli il materiale per sognare. Gli interni dei bar fanno pensare a strane avventure; gli incontri improvvisi fanno balenare la promessa di nuovi contatti umani; gli improvvisi mutamenti di scena sono gravidi di possibilità imprevedibili.
Attraverso il suo stesso interesse per la realtà fotografica, il cinema permette così, soprattutto allo spettatore solitario, di riempire il suo Io, rattrappito in un ambiente in cui i nudi schemi delle cose minacciano di sostituirsi alle cose stesse; d’immagini della vita come tale: di vita luccicante, suggestiva, illimitata.
Evidentemente, queste immagini sparse, ch’egli può naturalmente intrecciare e legare in molti modi diversi, danno tanta soddisfazione al sognatore perché gli offrono vie per evadere in un mondo, simile a un miraggio, di oggetti concreti, di sensazioni vivissime, di possibilità insolite. (…)
Ciò che salva lo spettatore dall’isolamento non è tanto lo spettacolo d’un destino individuale che potrebbe nuovamente isolarlo, quanto la vista di persone che si uniscono e comunicano l’una coll’altra secondo linee sempre nuove.
Quel che cerca non è tanto il dramma vero e proprio quanto la possibilità del dramma. (…)

Valendosi di questa possibilità, soddisfa anche un altro desiderio.
Come già abbiamo detto, Hoffmansthal sostiene che nei sogni dello spettatore rivivono quelli dell’infanzia, caduti ormai nell’inconscio. Tutta questa vegetazione sotterranea” osserva “trema sino alle sue radici più oscure e profonde, mentre gli occhi estraggono dallo schermo luminoso l’immagine dei mille aspetti della vita.” (…)

Il mondo è diventato così complesso – e non soltanto dal punto di vista politico – che non è più possibile semplificarlo. Ogni effetto sembra separato dalle sue molteplici possibili cause; ogni tentativo di arrivare a una sintesi, a un’immagine unica, fallisce.
Ecco perché un diffuso senso d’impotenza di fronte alle varie influenze diventa, in quanto sfugge a ogni definizione, impossibile da dominare.
Senza dubbio molti di noi soffrono, più o meno coscientemente, d’essere esposti, inermi, a queste influenze. Cerchiamo quindi compensi. E, a quanto pare, il cinema è in grado di darci un temporaneo sollievo. Nel cinema “siamo in grado di cogliere tutto l’insieme”, come dice l’insegnante. L’uomo più deluso e fallito può sentirsi il re del creato.

È abbastanza chiaro che lo stesso ragionamento che Kracauer fa per la funzione svolta dal cinema nella società moderna, una funzione sia di tipo sostitutivo e compensativo, sia di tipo estraniante ed alienante, la si può estendere alla televisione, al computer e al telefonino.
Da un lato essi ci offrono, o sembrano offrici, un appetitoso surrogato di quella vita vera, fatta di cose concrete, che sempre più ci sfugge di mano, in una realtà quotidiana sempre più pervasa da forze impersonali e da situazioni che vanno assai oltre la nostra capacità di previsione, di comprensione e di controllo: la famosa “complessità” di cui sempre i pensatori post-moderni si riempiono la bocca, come se fosse una forza estranea, magari marziana, e non un riflesso della confusione e della perdita di autocontrollo da parte dell’uomo stesso; dall’altro ci sequestrano e ci tengono imprigionati, in una condizione di dipendenza assai simile a quella dell’eroinomane nei confronti della droga di cui ha bisogno per vivere, e perciò sono i maggiori responsabili del senso di estraniamento che pesa su di noi e ci separa dal qui e ora.
Ed ecco così spiegato il rapporto di amore-odio che lega le persone al loro telefonino, al computer, alla televisione e al cinema: è un rapporto malato, ambivalente, in cui si può leggere sia la causa, sia l’effetto della solitudine dell’uomo contemporaneo e il suo caratteristico senso di fragilità e di vulnerabilità.
D’altra parte, abbiamo visto che, a partire dal Romanticismo, ma soprattutto dal Decadentismo, si diffondono in Occidente le filosofie che esaltano la forza, la vita, l’adesione dell’uomo al grande tutto della natura: da Walt Whitman, a Nietzsche, a Bergson, a D’Annunzio, a Jack London, a Spengler: pensatori, scrittori e poeti, anche assai diversi fra loro, ma con un elemento che li accomuna: il vitalismo, il volontarismo di matrice naturalista, l’ammirazione per tutto ciò che è “vita”, intesa come azione, e viceversa il disprezzo per la riflessione, l’introspezione, la rinuncia e il distacco, sia nella forma dell’ascetismo, sia in quella di ogni forma di sottomissione a una morale riconosciuta come superiore agli “istinti”.
Abbiamo anche visto come un aspetto tipico della vita moderna sia la prevalenza del pensiero astratto sull’esperienza concreta, culminante nel dominio dello scientismo su ogni altro orientamento culturale, tanto che negli ultimi decenni lo scientismo è divenuto tutt’uno con il tecnicismo, e la figura dello scienziato si è fusa con quella del tecnico.
Ma il tecnico, oggi, è anche chiunque sappia usare con destrezza e padronanza un computer o un telefonino, cosa che può essere raggiunta anche da un ragazzino: e infatti vi sono dei ragazzini che hanno stupito il mondo, riuscendo a violare le protezioni delle più segrete reti informatiche istituzionali, anche di tipo finanziario o militare.
Ora, una simile potenza del sapere tecno-scientifico è proprio ciò che ribadisce la distanza fra gli uomini contemporanei e il mondo delle cose concrete, della vita reale, sostituendo ad esso una realtà virtuale fatta di formule, di algoritmi, di competenze d’ordine strettamente matematico.
Ma il mondo delle cose concrete, cacciato dalla porta, preme per rientrare dalla finestra: il cinema, la televisione e i social network sono le finestre mediante le quali le cose rientrano a far parte della nostra vita, naturalmente, però, nella versione artificiale e illusoria che è propria della tecnologia.
Eppure l’effetto è simile: i nostri nonni si commuovevamo e piangevano assistendo alla proiezione dei vecchi film sentimentali, così come i nostri figli, oggi, s’immedesimano a tal punto nei giochi di ruolo informatici, da non saperne più uscire e da andare incontro a drammi emotivi ed esaurimenti nervosi, come se si trattasse di esperienze assolutamente reali.
E in un certo senso, lo sono: solo che appartengono a una realtà fittizia, a un altrove che ricorda quello di Alice nel paese delle meraviglie.

Francesco Lamendola

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Immagini e testo tratti da  Ragione Critica

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Mi scuso per la lunghezza ma il pezzo credo che valga proprio la pena di essere letto.

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Guardate questi superflui!


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« Guardate questi superflui!
Acquistano ricchezze diventando con ciò più poveri.
Vogliono il potere e per primo la leva del potere: molto denaro – questi impotenti!
Guardate come si arrampicano, queste svelte scimmie!
Si arrampicano gli uni sugli altri e si trascinano nel fango e nella bassezza.
Vogliono tutti arrivare al trono: è la loro follia – come se la felicità sedesse in trono!
Spesso sul trono siede il fango – e spesso anche il trono sul fango. »

F. Nietzsche, “Così parlò Zarathustra”

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Immagine e testo tratti da   Gazzetta filosofica

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Semplicemente … ‘premonitore’ …

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analfabeti digitali funzionali


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Lo smartphone + whatsapp + facebook stanno formando degli analfabeti digitali funzionali che si fanno condurre dove vuole l’industria digitale.
Di quelli che si accontentano della roba che gli passa la home, preselezionata, che non sanno più fare una ricerca su pc, e dipendenti in tutto dallo smart.
Quelli che dallo smarphone al microchip incorporato nel corpo, non c’è che un saltino, e che male c’è? “Tanto abbiamo già il microchip!
E’ questo” e ti mostrano lo smartphone sti schiavi geneticamente programmati.

Nicoletta Forcheri

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Testo tratto da   Nicoletta Forcheri

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cambiare marca di sigarette e pensare di aver smesso di fumare


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Pensare di poter mettere fine all’insieme di meccanismi che formano il sistema eleggendone un rappresentante nuovo non è diverso da cambiare marca di sigarette e pensare di aver smesso di fumare.

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Immagine e testo precedente tratti da    Mosca Bianca

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Effettivamente qualunque sia l’esito di una elezione il risultato non cambia, non di molto almeno, e questo non è mai stata una buona notizia per la gente comune.
Nel caso delle elezioni di domenica la situazione è ancora peggiore (non fatevi ingannare da frasi e slogan che vi stanno mediaticamente martellando in questi giorni) perché in questo caso il risultato non sarà uguale … sarà nullo, cioè del tutto inesistente.
Se non ci credete ripensate al passato e poi ascoltate un po’ qua …

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gli obiettivi dell’economia


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Non esiste governo o istituzione che non sia basata sui meccanismi e sugli obiettivi dell’economia.
Vedete un po’ voi se è il caso di continuare a delegare gli aspetti cruciali della nostra esistenza a chi oltre a gestirli al posto nostro deresponsabilizzandoci è anche mosso da una mentalità intrinsecamente e pesantemente nociva.

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Immagine e testo tratti da  Mosca Bianca

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Che origine ha il nostro passato?


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“Che origine ha il tuo passato?
Ti è stato tramandato dai tuoi genitori, dal tuo sistema educativo, dai tuoi leader religiosi, dai tuoi testi sacri.
Ma ti è stato consegnato; non è frutto della tua ricerca, della tua esperienza.
E tutto ciò che non è tua esperienza è semplicemente un peso che ti impedisce di volare nel cielo sconfinato, verso le stelle.
Ogni generazione continua a dare le proprie malattie alle nuove generazioni.
La chiamano saggezza ma ciò che era saggio ieri, oggi non è altro che stupidità. Ogni generazione continua a tramandare la propria follia alla generazione successiva. La follia ha continuato ad accumularsi, ed è per questo che l’uomo è caduto sempre più in basso.
Per secoli non abbiamo fatto altro che apportare miglioramenti alla pazzia che ci viene tramandata. E abbiamo usato belle parole per descrivere quella pazzia, per cercare di mascherare la realtà.
E non solo siamo riusciti a mascherarla, ma ci siamo perfino autoconvinti a venerarla.”

(Osho)

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Immagine e testo tratti da  YouFlame

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