Buon Anno Nuovo a Tutti !!!


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Non possiamo affrontare il futuro
continuando a pensare al passato

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Siamo tutti impegnati in un processo di trasformazione,
non avere vergogna dei tuoi problemi,
abbi una versione migliore di te stesso!
La possibilità di cambiare, il desiderio di evolversi.
La forza di alzarsi da terra e smetterla di mangiare la sabbia.
Non sei stanco di compiere ciò che facevi ogni giorno?
Se continui a fare ciò che hai sempre fatto,
rimarrai sempre dove sei sempre stato…

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Video e testo sono tratti da    Abbattiamo IL Sistema

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Convincersi di farcela …


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Poco più di un mese fa vi proposi qualche pagina tratta da un libro di Pietro Trabucchi , uno psicologo che si occupa principalmente di prestazioni sportive ‘off limits’; il libro in questione è  PERSEVERARE E’ UMANO.
Oggi vi trascrivo alcuni brani che trattano della ‘resilienza’ (la capacità di far fronte ai problemi che dobbiamo quotidianamente affrontare) e della ricerca delle ‘motivazioni’ che ci aiutino nell’intento.

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CONVINCERSI DI FARCELA, TENERE DURO:
I DUE CARDINI DELL’AUTOMOTIVAZIONE

“Nevicava fortissimo. Presto le valanghe avrebbero cominciato a spazzare il pendio. Togliersi subito da lì!
Non-posso-farcela e Chi-me-lo-fa-fare non si decidevano a muoversi, ciascuno per ragioni diverse.
Finirono sepolti alla prima slavina. (Rielaborazione di un reale fatto di cronaca).
La resilienza ha due anime.
Quando diciamo che una persona è ‘demotivata’, con questo termine indichiamo di volta in volta due fenomeni molto diversi tra loro, ognuno dei quali ci rivela un diverso aspetto della resilienza.
Il primo caso di ‘demotivazione’ è la situazione di qualcuno che non si impegna per ottenere un obiettivo, non perché non vi aspiri, ma perché ritiene di non poterlo raggiungere.
La frase tipica che riassume la situazione è: *Tanto non ce la farò mai, quindi meglio lasciar perdere!*
[…]

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In questo primo caso, la persona rinuncia e non si impegna a causa di un basso senso di auto-efficacia. Uso l’espressione ‘senso di auto-efficacia’ come equivalente a senso di competenza: sentirsi auto-efficace significa sentirsi adeguato e capace di raggiungere un dato obiettivo.
[…]
Tuttavia, il nostro linguaggio utilizza il termine ‘demotivazione’ anche per indicare una situazione completamente diversa.
Continuando con l’esempio, possiamo avere una persona che ha un ottimo senso di auto-efficacia, per cui è certa di poter ottenere l’obiettivo prefissato. Ma che alla fine non fa nulla, perché non ha voglia di affrontare la fatica necessaria, non ha voglia di fare sacrifici e di soffrire.
In questo caso, parliamo di ‘demotivazione’ da bassa capacita volizionale, cioè di scarsa volontà.

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La frase tipica è: *Ma chi me lo fa fare?* Oppure *Non ne vale la pena!* O ancora. *Troppo sbattimento!.
Le capacità volizionali rappresentano l’altro componente centrale della resilienza.
Nella nostra cultura domina un’immagine falsata e fuorviante del desiderare e del volere: un’immagine romantica del desiderio come privo di controllo, irrazionale e che in qualche modo viene indotta dall’esterno.
A questa accezione del termine rimanda, secondo alcuni, anche l’etimologia: ‘desiderio’ sembrerebbe infatti provenire dal latino ‘de sideribus’, proveniente dalle stelle: quindi qualcosa fuori di noi, che ci influenza ma che noi non possiamo controllare.

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In una suggestiva ipotesi del filosofo Umberto Galimberti, la parola viene fatta risalire a un passo del DE BELLO GALLICO di Giulio Cesare: qui i ‘desiderantes’ erano soldati che stavano sotto le stelle ad aspettare i commilitoni che, dopo aver combattuto durante il giorno, ancora non erano tornati.
Desiderare quindi come condizione in cui si attende, che si subisce senza governare attivamente. A questa concezione del desiderio manca l’aspetto attivo: il volere come darsi razionalmente un progetto e perseguirlo con disciplina.
[…]
Senza capacità volizionali, la motivazione si arresta al primo sentore di disagio, alle prime fatiche.
E i desideri restano semplici velleità.
[…]
L’autostima invece è una cosa diversa: è la percezione generale del mio valore come persona.
Non riguarda le mie capacità, riguarda il mio valore.
E’ un po’ il bilancio generale di noi stessi in termini di ‘mi piaccio’, ‘non mi piaccio’.
Il senso di auto-efficacia non ha invece una connessione immediata con il senso generale del nostro valore.

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Come spiega Albert Bandura (psicologo canadese ndr):*una persona può giudicarsi irrimediabilmente inefficace in una data attività senza per questo patire una qualsiasi perdita di autostima, se non investe tale attività del senso del proprio valore personale*.
[…]
Un problema più sottile, però, si verifica quando permettiamo non alle esperienze reali, ma ai nostri ‘sabotatori interni’ di prevalere.
Per ‘sabotatori interni’ intendo quei processi cognitivi disfunzionali, cioè errati.
I sabotatori interni si rinforzano quando permettiamo alla nostra mente di aderire in modo automatico a credenze, convinzioni, interpretazioni della realtà che sono false e/o limitanti.
In questi casi il nostro senso di auto-efficacia si abbassa perché ci sabotiamo da soli.
Parlo di processi che sono molto comuni e che avvengono di continuo.
[…]
Il primo passo per aumentare la resilienza individuale ed espandere il senso di auto-efficacia passa dal disinnescare il più possibile i sabotatori interni.
La caratteristica costante degli auto-sabotaggi sta nel confondere realtà esterna e valutazioni interne, pensieri ed eventi reali.
[…]

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Sono tanti gli esempi di limiti che ci poniamo da soli: *Questo non mi interessa perché è troppo complicato*; *Non ho la stoffa*; *Da piccolo non l’ho mai fatto*;
*E’ tutti inutile*; *Tanto non cambierà mai niente*; *Gli altri sono più bravi*; *Non ce la farò mai*; *Devo assolutamente essere apprezzato da tutti*.
Questi pensieri caratterizzati da elementi di assolutezza (mai, sempre) sono esempi comuni e grossolani di errori cognitivi.
Altri pensieri sono più sottili e subdoli.
Ma, in entrambi i casi, pur paventando limiti immaginari, finiscono con l’avere conseguenze reali, perché generano comportamenti precisi,
Noi rimaniamo attaccati a questi errori cognitivi, a queste credenze non dimostrate, a queste valutazioni fasulle, in gran parte perché ci fanno comodo.
Perché i limiti auto-generati ci proteggono dall’impegno, dal confronto, dal dover vivere esperienze spiacevoli; e ci forniscono degli alibi preconfezionati.
Ma queste protezioni a lungo termine ci danneggiano.
Perché abbassando il senso di auto-efficacia, cancellano la motivazione e impediscono la crescita e lo sviluppo personale:”

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L’inizio di un nuovo anno è il momento migliore per formulare propositi; lo fanno in tanti da sempre, salvo poi quasi regolarmente non mantenerli.
Riflettere sulle parole appena lette e cercare di cambiare questa radicata e negativa abitudine è una buona cosa da augurare.
Particolare attenzione presterei all’argomento tremendamente importante e assolutamente incidente ma, al contempo, assai sottovalutato o misconosciuto che è quello dei “sabotatori interni” (di cui vi ho gia accennato in altre occasioni definendoli alla maniera di Castaneda “los voladores”).

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il fazzoletto di lino


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” In un monastero, un anziano priore, un vero santo, non riesce a nascondere la tristezza.
*Perché è tanto triste, padre?* gli chiede un giovane monaco.
*Perché comincio a dubitare dell’intelligenza dei miei fratelli riguardo alle grandi realtà di Dio.
E’ già la terza volta che ho mostrato loro un fazzoletto di lino su cui ho disegnato un puntino rosso, e ho chiesto di dirmi cosa vedono.
Tutti mi hanno risposto ‘un puntino rosso’, e nessuno ‘un fazzoletto di lino’.* “

Alejandro Jodorowsky
Cabaret Mistico

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dei doveri verso se stessi …


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tratto da
DEI DOVERI VERSO SE STESSI
IN RIFERIMENTO ALLE CIRCOSTANZE ESTERNE

“Si è già detto come l’uomo possieda in sé una fonte di felicità.
Tale felicità non consiste nell’affrancarsi completamente da qualsiasi bisogno e circostanza esterna, ma nell’aver bisogno di poco.
Per ottenere questo, però, l’uomo deve esercitare un controllo autocratico sulle proprie inclinazioni; egli deve raffrenare la tendenza a procurarsi cose che è impossibile ottenere o che si possano avere con grande fatica; è così che egli acquista indipendenza nei loro confronti.
Egli deve inoltre possedere principi tali da procurarsi quegli agi della vita che può serbare in suo potere.
In altri termini, occorrono sobrietà e incremento dei piaceri spirituali.
Per ciò che concerne le cose esterne, in quanto costituiscono la condizione e il mezzo per conseguire il benessere, esse sono di due specie, a seconda che servano a soddisfare bisogni e necessità oppure a fornire degli agi.
Ciò che occorre soltanto per sopperire a un bisogno serve a vivere, mentre ciò che occorre per procurarsi degli agi non serve a vivere, ma a vivere comodamente.
Il grado naturale di contentezza dipende dai nostri bisogni; se, però, siamo contenti di come abbiamo provveduto ad essi, ciò non implica ancora alcun vero diletto.
La contentezza è qualcosa di negativo, le comodità qualcosa di positivo.
Finché provo il piacere di vivere sono contento, quando non lo provo più sono scontento.
Ma io posso aver piacere di vivere anche in strettezze, senza godere ancora di alcun agio.
Le comodità sono strumenti superflui di benessere; dove manca una tale superfluità siamo in presenza di un mezzo per sopperire a un bisogno.
Ora, cos’è che consideriamo come un mezzo per conseguire una comodità e che cosa per sopperire a un bisogno?
Quanto annoveriamo noi tra le comodità e quanto tra i bisogni?
Di che cosa possiamo fare a meno e di che cosa no?
Noi dobbiamo godere di ogni agio e piacere in modo da poter fare a meno di essi, senza cioè trasformarli mai in bisogni.
Gli antichi affermavano tutto ciò quando dicevano: *Sustine et abstime*.
Noi non dobbiamo privarci di ogni agio e piacere, eliminando il godimento,che sarebbe virtù da monaci, spogliarci di quanto è connaturato alla vita umana: dobbiamo, però, godere di esso in modo da poterne fare a meno e da non trasformarlo in bisogno: allora soltanto saremo stati astinenti.
D’altro lato dobbiamo abituarci a sopportare i disagi della vita e saggiare le nostre forze nell’affrontarli con pazienza senza perdere la serenità; possedere forza d’animo significa, infatti, sopportare i mali che non si possono evitare con animo giocondo.
Non ci è consentito infliggerci disagi, procurarci ogni possibile male, punirci con macerazioni; far questo significa praticare una virtù monacale, ben diversa da quella filosofica, con la quale affrontiamo serenamente ogni male che ci colpisca, così che alla fine non ve n’è alcuno che non sia sopportabile.
Qui il ‘sustine e abstime’ non implica, dunque, una disciplina, ma la capacità di fare a meno di ogni agio e diletto.
Vi sono necessità reali della vita, la cui mancata soddisfazione ci rende del tutto scontenti, l’essere per esempio privo di vesti o nutrimento.
Ma vi sono anche necessità che, disattese, ci rendono senza dubbio infelici e di cui tuttavia potremmo sempre fare a meno.
Quanto più si dipende da pseudo-bisogni, tanto più, nella propria contentezza, si è alla loro mercé.
In questo senso l’uomo deve disciplinare il proprio animo nei riguardi della necessità della vita.
Volendone dare una classificazione, noi possiamo definire ‘dissolutezza’ l’eccesso di piacere nel godimento e ‘mollezza’ l’eccesso di agi.
[…]
La dissolutezza è il lusso sregolato, la mollezza il lusso delicato.
Il primo è attivo, il secondo inerte.
Il lusso attivo promuove le energie dell’uomo, perché ne esce intensificata la forza vitale, come per esempio è il caso dell’andare a cavallo.
Ogni sorta di mollezza inerte è assai dannosa e la forza vitale ne risulta mortificata; rientrano qui, per esempio, la smoderatezza nel bere o l’andare in carrozza.
[…]
All’uomo che rispetti i suoi doveri verso se stesso e verso gli altri è consentito godere quanto vorrà e potrà: egli rimarrà sempre di indole buona e adempirà il fine della creazione.
D’altro canto noi non siamo tenuti a imporci dei mali per poi soffrirne; non vi è, infatti, alcun merito nel sopportare dei mali che ci si è imposti e di cui si sarebbe potuto fare a meno; tuttavia dobbiamo sopportare con animo fermo le sventure inviateci dal destino e che non siamo in grado di mutare.
Poiché il destino è altrettanto poco arrestabile quanto un muro che già cada.
Tutto questo, però, non costituisce in sé virtù, come il contrario non costituisce vizio, ma è solo la condizione dei nostri doveri.
Egli non può essere virtuoso, se nella sventura si perde d’animo.
Per essere virtuoso deve possedere, dunque, delle doti di sopportazione.
[…]
Del lusso si deve ancora notare come esso spesso sia stato oggetto di considerazione filosofica.
Si è a lungo indagato se esso dia da approvare o da disapprovare o se sia conforme o contrario alla moralità.
Una cosa può essere conforme alla moralità e tuttavia esserle indirettamente di impedimento.
Innanzi tutto il lusso accresce i bisogni, nonché gli stimoli e gli allettamenti delle inclinazioni, il che rende più difficile seguire i dettami della vita morale, poiché quanto più schiette e genuine sono le nostre inclinazioni, tanto minori sono le seduzioni richieste per soddisfarle.
Perciò il lusso comporta indirettamente un’incrinatura della moralità.
D’altra parte, esso promuove le arti e le scienze, sviluppa le attitudini umane, risultando da ciò che tale condizione coincide con la destinazione dell’uomo.
Il lusso raffina la moralità; poiché in fatto di moralità si può cercare o la rettitudine o la finezza: si ha rettitudine, quando non si contraddice alla moralità; finezza, invece, quando alla vita morale si unisce l’amabilità.
Il lusso tende dunque a sviluppare la natura umana fino al più alto grado della bellezza.
E’ tuttavia necessario distinguere il lusso dallo sfarzo.
Il lusso consiste nella varietà, lo sfarzo nella quantità.
La mancanza di misura è caratteristica delle persone che non possiedono alcun gusto.
Il lusso si trova invece in uomini dotati di gusto, esso soddisfa con la sua varietà la nostra capacità di giudizio.
Da questo punto di vista, sotto il profilo della morale, non v’è nulla da obiettare contro il lusso, cui va soltanto offerta una guida.
Nel lusso non si deve eccedere, ma rimanere nei limiti di ciò che si è in grado di sostenere.”

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la cultura dell’apparenza


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“LA CULTURA DELL’APPARENZA, LA NOSTRA DECADENZA”

“Non viviamo una crisi economica, è una crisi morale, per questo sarà tanto difficile uscirne”.
José Saramago, premio Nobel per la letteratura, qualche giorno prima di morire pronunciò queste parole.
Un lascito spirituale per la nostra civiltà in agonia.
Parole giuste di un grande intellettuale su cui vale la pena aprire una riflessione.
Quando la morale entra in crisi una società non è più in grado di generare intelligenza e diventa sempre più difficile trovare una via d’uscita diversa dalla decadenza.

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L’intelligenza è un bene raro nella nostra epoca.
Non se ne trova in nessun luogo. È proprio così.
Se mi guardo intorno non vedo nessuno che si legge dentro.
Ci affatichiamo per costruire la società dell’apparenza.
Il culto dell’immagine a ogni costo è quello che conta.
Tutto quello che deve emergere è quello che non siamo.

“Devo fabbricarmi un sorriso, munirmene, mettermi sotto la sua protezione, frapporre qualcosa tra il mondo e me, camuffare le mie ferite, imparare, insomma, a usare la maschera”.

Cioran guarda negli occhi la maschera che non riesce a infilarsi e condanna la viltà di coloro che la indossano con estrema facilità perché hanno paura di mostrarsi così come sono.

Oggi quasi nessuno riesce a fare a meno della propria maschera.
Si ha talmente paura di farsi vedere a cuore nudo dall’altro, mostrarsi nella propria schiettezza, aprirsi con fiducia, farsi capire per quello che realmente si sente e si prova.
Tutto nasce da questo complesso di timori.
Siamo soltanto maschere che non hanno il coraggio di essere.

Non ci interessa l’essenza delle cose, ma il loro apparire.
Preferiamo amarci male, che mostrare il volto vero dei nostri sentimenti.
Sui luoghi di lavoro, come nelle relazioni sociali è più comodo indossare un’esistenza che non sia la nostra.
Mostrare la propria con i suoi difetti e le sue fragilità è a dir poco sconveniente.

Siamo maschere che mentono, fedeli seguaci dell’apparenza e delle convenzioni.
Abbiamo paura di conoscere noi stessi, e soprattutto riteniamo pericoloso che gli altri possano conoscerci per quello che in realtà siamo.

Indossando la maschera siamo gli artefici del grande inganno che mistifica tutto.
Che fa diventare il tutto un cosmico niente.

La maschera uccide noi stessi e il mondo.
Ma preferiamo non abbassare la guardia, non mostrare quello che siamo capaci di fare con il nostro cuore messo a nudo.
Gli altri non devono sapere come siamo fatti davvero dentro.
Dobbiamo mentire per guadagnarci un posto al sole nella società che giudica dalle apparenze.

Siamo un’inciviltà di maschere che si consuma nella menzogna.

Così tutto ci sembra perfetto, fabbrichiamo un sorriso tra il mondo e noi stessi, mettiamo sempre la parte peggiore di noi, che è il modo migliore per essere accettati in società.

Preferiamo essere uno nessuno e centomila, piuttosto che vivere un giorno di solitudine insieme alla parte più intima di noi.

“Come mai ci sono cosi poche persone perbene?
Ne ho abbastanza di questi abbozzi di umanità, di queste funeralecaricature, di questi esseri riusciti a metà”.

Cioran, ancora una volta, pugnala con le sue parole questo nostro tragico tempo dell’apparenza, nel quale difficilmente avremo il coraggio di rinunciare alla maschera.

È sufficiente tutto questo per affermare che una civiltà sente vicina la propria fine.
Direi proprio di sì.
Chiamate il prete, è ora di celebrare il funerale del nostro tempo che si è spento perché nessuno ha avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome.

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Immagine e testo tratti da     Iveta Semetkova

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Cioran è stato un influente filosofo del secolo scorso; indubbiamente un pessimista, nichilista e misantropo ma, in tutta onestà, guardandosi intorno, c’è qualcuno che pensa che il suo pensiero sia totalmente scollato dalla realtà? Che non ci sia anche del vero (e forse anche parecchio) nelle sue parole?
Forse il pessimismo, più che un difetto, è ormai oggi una naturale conseguenza delle azioni umane …

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Apparenze


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Esplicativa esemplificazione di ‘cosa occorra sapere per avere serenità’ … e ve lo dice uno che ancora ‘patisce’ molto il ‘lunedì’ … (quindi un ‘eterno discepolo’ errante … 😉 )

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4793

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la massima può apparire soltanto divertente ma
in realtà
è molto meno ironica di quanto possa sembrare
riflettiamoci …

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la storia senza UN fine (bis)


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Una Storia senza un fine a volte è una ‘storia senza fine’ (e nel mondo contemporaneo non è certamente un evento raro).

Ho riletto questa favola ed anche il mio commento finale;
è una favola che del resto si presta per come è strutturata.

Considerato che nel rileggerla mi è ‘venuto’ in mente un altro commento, ve lo aggiungo qui :

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I puntini [quanto li amo i puntini, ne faccio grande uso (ed abuso)] lasciano presupporre una successiva azione che però non viene esplicitata …
chissà quale sarà mai stata ?
O forse ne sono possibili anche più d’una e ogni lettore se la può confezionare ‘su misura’ per se …
magari una che accomuni la ‘storia‘ (quella della favola) alla ‘vita‘ (quella della realtà) …
potrebbero essere una fedele specchio dell’altra …
si, credo proprio che potrebbe essere …

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4792

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la volta


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4548

LA VOLTA

“C’era una volta, ma serviva a poco.
Riparava dalla pioggia; negli angoli gli uccelli facevano il nido; se gridavi forte in una direzione ben precisa, risuonavano degli echi.
Tutto questo, però, accadeva solo lì, e i più non lo tenevano in gran conto.
Dovevi partire da casa, attraversare il bosco con il rischio di perderti, spalancare la porta sgangherata, e solo allora potevi trovarti all’asciutto e ascoltare il frullo d’ali e il rimbalzare di grida.
Se uscivi, ritornava il silenzio e ricominciavi a bagnarti da capo a piedi.
Così i più preferivano l’altra volta, perché con quella quando dicevano ‘c’era una volta’, non avevano limiti.

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C’era una volta l’arca si Noè, per esempio, che riparava dal diluvio universale solcando in lungo e in largo le acque limacciose di uno sterminato oceano.
O c’era una volta l’araba fenice, o il cavallo alato, ed erano dovunque tu volessi, anche insieme, e compivano le più mirabolanti avventure.
Per non parlare degli echi che c’erano una volta: melodie celesti e lugubri litanie, invocazioni disperate e amichevoli sussurri.
L’unico a non andare d’accordo con i più era il vecchio Mastro Giacomo.

4791

A lui arche e cavalli alati facevano girare la testa, e non ci provava nessun gusto.
Gli piaceva invece fare quella strada nel bosco, tastare passando quei tronchi che conosceva tanto bene e nei quali sapeva cogliere da sempre i segni del cambiamento delle stagioni, e finalmente arrivare fra quelle pietre che gli suggerivano mille ricordi, suoi e dei suoi cari che mai avevano solcato l’oceano e fatto nulla di mirabolante ma si erano riparati là dentro e ci erano stati bene.
Si poteva avvertire la loro presenza e il loro calore, sotto la volta.”

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(P) anopticon


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4783

Nel 1791 Jeremy Bentham inventò il ‘Panopticon’, in cui il controllore (o carceriere) riesce a vedere tutto, senza essere visto (probabilmente ispirato dall’Argo Panoptes della mitologia greca: un gigante dai mille occhi, quindi un ottimo guardiano).
Negli ultimi tempi ascoltiamo sempre più frequentemente notizie di cronaca politica nelle quali ci rendiamo conto che i fondamentali del controllo (ma oserei dire della logica) si sbiadiscono progressivamente fino a svanire del tutto.
E’ probabilmente superfluo portare qualche esempio, recente, magari inerente a ‘qualche banca’ …
Stante così le cose diventa attualissima la descrizione che potete leggere nel testo che vi propongo sotto; certo è che una sola lettera, la “P” fa una enorme differenza quando c’è di mezzo la politica : quando si tratta dei normali (?) cittadini la “P” è ben presente, quando si tratta dei politici ed affini invece la “P” ‘evapora’ (insieme al buon senso).

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4516

da
IL SECONDO DIARIO MINIMO
di Umberto Eco
L’ANOPTICON

“L’anopticon è un edificio di forma esagonale che racchiude in sé altri cinque edifici di forma esagonale, così che tra le mura dei vari edifici si formino come unica intercapedine abitabile cinque corridoi dal percorso esagonale, più una camera chiusa di forma esagonale.
L’anopticon realizza il principio del ‘poter essere visto da tutti senza vedere nessuno’.
Soggetto dell’anopticon è un carceriere che viene posto nella stanza chiusa esagonale centrale, illuminata da poche feritoie a tronco di cono che permettono l’entrata della luce dall’alto ma non consentono al carceriere di vedere null’altro che una ristretta porzione circolare del cielo.

4784

Il carceriere rimane all’oscuro di ciò che avviene nei cinque corridoi esagonali dove vivono liberamente i detenuti.
Dal corridoio a perimetro minore i detenuti possono osservare il carceriere mediante feritoie, anch’esse a tronco di cono, così che il carceriere osservato non possa sapere né quando è osservato né da chi.

4785

L’anopticon consente al carceriere di non aver nessun controllo sul resto del carcere: egli non può sorvegliare i detenuti, non può impedirne la fuga, non può nemmeno sapere se nel carcere vi siano ancora detenuti né se qualcuno lo osserva e, posto che qualcuno lo osservi, il carceriere non è in grado di sapere se costui sia un detenuto o un visitatore occasionale […]
L’anopticon realizza l’ideale della completa deresponsabilizzazione del sorvegliante, sancita dalla sua punizione, e risponde alla domanda: ‘Quis custodiet custodes?’ “

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Il risultato?
Eccolo sintetizzato …

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4786

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come evitare malattie contagiose


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4516

Vi propongo un testo ‘ironico’ di Umberto Eco,
scritto nel 1985, compreso nel
SECONDO DIARIO MINIMO
è il capitolo
COME EVITARE MALATTIE CONTAGIOSE

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“Tanti anni fa un attore della televisione, che non faceva mistero della propria omosessualità, disse a un giovane carino che palesemente tentava di sedurre: *Ma tu vai con le donne? Non sai che fanno venire il cancro?*

4776

La battuta viene ancora citata nei corridoi di corso Sempione (della RAI a Milano, ndr), ma ora è finito il tempo di scherzare.
Leggo che il professor Matré ha rivelato che il contatto eterosessuale provoca il cancro.
Era ora.
Dirò di più, il contatto eterosessuale provoca la morte tout court: lo sanno anche i bambini che esso serve alla procreazione e più gente nasce, più gente muore.
Con scarso senso di democrazia la psicosi dell’AIDS minacciava di limitare le attività dei soli omosessuali. Ora limiteremo anche le attività eterosessuali e tutti saremo di nuovo uguali.

4777

Eravamo troppo spensierati, e il ritorno degli untori serve a darci una più severa coscienza dei nostri diritti-doveri.
Vorrei tuttavia sottolineare che lo stesso problema dell’AIDS è più serio di quanto non crediamo e non riguarda solo gli omosessuali.
Non vorrei diffondere eccessivo allarmismo, ma mi permetto di segnalare altre categorie ad alto rischio.

– Professioni liberali –

Non frequentate teatri di avanguardia a New York: è noto che per ragioni fonetiche gli attori anglosassoni sputano moltissimo, basta guardarli controluce di profilo, e i teatrini sperimentali pongono lo spettatore a diretto contatto di spruzzo con l’attore.
Se deputati, non intrattenere rapporti con mafiosi (‘na parola … almeno da ‘noi’ …eheheheh, ndr), per non dover trovarsi a dover baciare la mano del padrino. Sconsigliata l’affiliazione alla camorra, per via del rito col sangue.

4778

Chi tenti una carriera politica attraverso CL dovrà tuttavia evitare la comunione, che trasmette germi di bocca in bocca attraverso i polpastrelli del celebrante, per non parlare dei rischi della confessione auricolare.

– Cittadini semplici e operai –

Ad alta quota rischio troviamo i mutuati con denti cariati, perché è pericoloso il contatto col dentista che ci mette in bocca le mani che hanno toccato altre bocche.
Nuotare nel mare inquinato da petroliere accresce il rischio di contagio, perché il minerale oleoso trasporta particelle di saliva di altra gente che lo ha inghiottito e sputato in precedenza.

4779

Chi consumi più di ottanta ‘Gauloises’ (sigarette francesi molto ‘forti’, senza filtro, non so oggi ma famose all’epoca, ndr) tocca con le dita, che han toccato altro, la parte superiore della sigaretta, e i germi entrano nelle vie respiratorie.
Evitare di essere messi in cassa integrazione, perché si passa la giornata a rodersi le unghie.
Porre cura nel non venir rapiti da pastori sardi o terroristi: i rapitori usano idi solito lo stesso cappuccio per più rapiti.
Non viaggiare in treno nel tratto Firenze-Bologna, dato che l’esplosione diffonde con estrema rapidità detriti organici, e in questi momenti di confusione è difficile proteggersi.

4780

Evitare di trovarsi in zone colpite da testate nucleari: di fronte alla visione del fungo atomico si tende a portare le mani alla bocca (senza averle lavate!), mormorando *mio Dio!*.
Sono inoltre in situazione di alto rischio i moribondi che baciano il crocifisso; i condannati a morte (ove la lama della ghigliottina non sia stata opportunamente disinfettata prima dell’uso); i bambini di orfanotrofi e brefotrofi che la suora cattiva obbliga a leccare il pavimento dopo averli legati per un piede alla brandina.

– Terzo Mondo –

“Minacciatissimi i pellerossa: il passaggio del calumet di bocca in bocca ha provocato, come è noto, l’estinzione della nazione indiana.

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I mediorientali e gli afgani sono esposti alla leccata del cammello, e si veda l’alto tasso di mortalità in Iran e Iraq.
Un desaparecido rischia moltissimo quando il torturatore infierisce su di lui sputandogli in faccia.
Cambogiani e abitanti di campi libanesi dovrebbero evitare il bagno di sangue, sconsigliato da nove medici su dieci (il decimo, più tollerante, è il dottor Mengele).
I negri sudafricani sono esposti a infezioni quando il bianco le guarda con disprezzo e fa un verso con la bocca che diffonde saliva.
I prigionieri politici di ogni colore debbono accuratamente evitare che il poliziotto dia loro un manrovescio sui denti dopo aver toccato le gengive di un altro inquisito.

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Le popolazioni affette da carestia endemica debbono astenersi, per calmare i morsi della fame, dal deglutire con frequenza, perché la saliva, venuta a contato coi miasmi dell’ambiente, va a infettare le vie intestinali.
Di questa campagna di educazione sanitaria le autorità e la stampa dovrebbero occuparsi, invece di fare dello scandalismo su altri problemi la cui soluzione potrebbe essere ragionevolmente rinviata a data da destinarsi.”

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Ministra Beaaaaaaaa    😉    …

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