il Cordino


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IL CORDINO

“Quando ero piccolo avevo un grosso problema.
Ogni tanto mi facevano male la testa o la gola, e fin qui niente di strano: non era piacevole, ma è una cosa che capita a tutti e, come si dice, mal comune…
C’era anche, però, un male che non era affatto comune; anzi, ce n’erano molti.
Mi facevano male i pantaloni, per esempio, quando la mamma li metteva in lavatrice e quella specie di ruota che c’è lì dentro li sbatteva di qua e di là.
Mi faceva male la porta se il vento la chiudeva con gran fracasso, mi faceva male il gatto se qualcuno gli tirava la coda e mi faceva male la sedia quando ci si sedeva su lo zio Pasquale che pesa più di un quintale e a momenti la sfondava.
A un certo punto la mamma decise di portarmi dal dottore.
Era un signore alto e tutto bianco, con degli occhiali così spessi che gli occhi neanche si vedevano.
Mi fece sedere e sdraiare, mi tastò davanti e dietro, mi guardò con certi altri occhiali ancora più spessi e finalmente si schiarì la voce e cominciò a spiegare.
Tutti quanti, disse, quando veniamo al mondo ci stacchiamo dal resto delle cose.
Alcune cose rimangono nostre, come la testa e la gola, e altre cose (la maggior parte delle cose) no.
Il gatto, i pantaloni, la sedia, per esempio, non sono nostri; o meglio, sono nostri nel senso che ce li possiamo tenere e se un altro li vuole ce li deve chiedere, ma non nel senso che fanno parte di noi come la testa e la gola.
Ecco, questo è quello che capita a tutti, anzi a quasi tutti.
Per motivi che nessuno comprende, ogni tanto nasce un bambino che non si stacca dal resto delle cose.
Io ero un bambino così: un cordino invisibile ma molto resistente mi legava al gatto e alla sedia, e anche alla pastasciutta e alla luna.
Per farmi diventare come gli altri bisognava tagliare il cordino.
Detto fatto, il dottore prese uno strumento invisibile ma molto resistente (che strumento fosse non lo so, perché non l’ho visto) e tagliò il cordino.
Da allora va tutto bene.
O forse dovrei dire: non va male.
Non mi fanno più male i pantaloni quando la mamma li mette in lavatrice, o il gatto quando gli tirano la coda, o la porta quando il vento la chiude con un gran fracasso, e non mi dispiace di sentir male solo alla testa o alla gola.
C’è ancora qualcosa che mi dispiace, però.
Prima, quando i pantaloni uscivano dalla lavatrice e la mamma li stendeva al sole, sentivo questo caldo che mi scorreva dentro come una tazza di cioccolata d’inverno.
Poi la mamma li ritirava nell’armadio fresco e profumato di lavanda, ed era come addormentarsi nell’erba, sotto un albero, dopo un pranzo all’aperto e tante corse dietro al pallone.
Per non parlare di quando il gatto si accoccolava sulla sedia: il suo pelo morbido contro il cuoio liscio e vellutato.
O quando la mamma sfogliava un libro e senza accorgersene accarezzava le pagine.
Quelle carezze non le sento più, da quando se n’è andato il cordino.”

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gli Uomini e le Parole


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Capitolo   GLI UOMINI E LE PAROLE

“Un giorno gli uomini si svegliarono con un diavolo per capello e non vollero dire più niente.
Non che non parlassero: chiacchieravano come e più di prima, alzavano la voce o la facevano scivolare in un sussurro.
Le parole continuavano ad articolarle correttamente, secondo la lingua che gli era stata insegnata, e a combinarle in frasi e periodi cui la grammatica non avrebbe avuto niente da obiettare.
E solo che con quelle parole, con quelle frasi e con quei periodi non volevano dire più niente.
Pensate a quando vi fa prurito una gamba, o la schiena.
Vi grattate, ma non è che grattandovi vogliate dire che avete prurito. Vi grattate e basta, perché avete prurito. E magari qualcuno capisce che avete prurito, ma non perché glielo volete dire, Vi vede grattarvi e ragionando per conto suo ne scopre il motivo.
Ecco, con gli uomini e le parole era successa la stessa cosa.
Uno aveva freddo e diceva *Ho freddo*, ma non voleva dire che aveva freddo. Lo diceva e basta, perché aveva freddo. E magari c’era qualcuno davanti e capiva che lui aveva freddo, ma non perché glielo volesse dire.
Oppure uno odiava un altro o lo amava, e diceva *Ti odio* o *Ti amo*, ma non per dire qualcosa all’altro, anzi non per dire alcunché: lo diceva nel modo in cui si gratta, o si battono i denti, o si piange, o si ride.
Lo diceva automaticamente.
E l’altro spesso capiva, così come si capiscono le lacrime e il riso.
Insomma, nessuno voleva dire più niente ma ci s’intendeva più o meno come prima.
Un giorno le cose cominciarono ad andare così.
E poi forse cambiarono.
O forse no.”

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Già, forse no …

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Impegno Talento Motivazione (II°)


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Proseguendo nella lettura di PERSEVERARE E’ UMANO troviamo delle pagine che hanno uno stretto legame con un tema : l’educazione.
Apparentemente, la parola dovrebbe essere facilmente declinata come attività che uno (l’educatore) svolge nei confronti dell’altro (l’allievo) per uno scopo prefissato;
e qui casca l’asino.
Attualmente la scuola assomiglia ad una fabbrica di panettoni in cui i prodotti son tutti uguali tra loro;
ad ogni ciclo di studi corrisponde una ‘sfornata’ di individui (ben imbottiti di nozioni) istruiti e preparati ad adattarsi a convenzioni e regole prefissate;
al diavolo il valorizzare l’individualità di ciascuno e la capacità di realizzare il proprio ‘se’; meglio un esercito di ‘robottini’ tutti uguali.

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sul tema eccovi un altro estratto dal Capitolo 
IMPEGNO, TALENTO, MOTIVAZIONE

“[…]
Le spinte interiori durano a lungo, abbattono ostacoli, possono trascinare persone verso mete remote.
Se la spinta invece proviene dall’esterno sarà fiacca, propensa a fermarsi alla prima difficoltà, incapace di portare lontano.
Gli psicologi distinguono tra ‘motivazioni intrinseche’, quelle che vengono da dentro, e ‘motivazioni estrinseche’, legate a fattori esterni.
Usando un linguaggio meno oscuro potremmo parlare di ‘auto-motivazione’ nel primo caso, e di motivazioni provenienti dall’esterno nel secondo.
Come ho detto, viviamo in un contesto culturale che, nella realizzazione di qualsiasi obiettivo, ci porta a sopravvalutare l’apporto dei fattori esterni piuttosto che a le spinte interiori.
Secondo questa visione la motivazione a conseguire un obiettivo non proviene prima di tutto dall’interno. Essa giunge sempre da un altrove, fuori da te stesso.
Questo ‘altrove fuori da stesso’ può assumere molte forme a seconda di quale leggenda motivazionale si vuole scegliere.
Una delle più intriganti è quella del cosiddetto ‘motivatore’: essa propugna l’idea che la motivazione sia qualcosa che alcuni privilegiati hanno il potere di infondere negli altri a proprio piacimento.
E’ un’idea un po’ megalomane e ingenua: tratta la motivazione al pari di una scatola di iniezioni, la famosa ‘motivina’ che qualcuno pretenderebbe di iniettare al prossimo.

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Si tratta di una credenza alimentata dalla presunzione e dal narcisismo di chi si illude (o vuol far credere) di possedere tali poteri, ma smentita dalla realtà.
L’immagine di una persona che grazie ai suoi discorsi, alle sue ‘strigliate’, ai suoi incitamenti rimette in piedi persone, atleti, team distrutti e li spinge alla vittoria è suggestiva, ma statisticamente poco frequente. (Fa l’esempio del discorso di Al Pacino nel film ‘Ogni maledetta domenica’, ndr).
[…]
Altolà. non sto dicendo che la motivazione interna non sia influenzata da fattori esterni; che il potere persuasivo di una persona non ci possa condizionare, che i nostri comportamenti non siano influenzabili da quelli degli altri.
Ovviamente lo sono.
Il punto è un altro.
Un conto è sostenere (e sono il primo a farlo) che ogni educatore, allenatore (o coach o manager) possiede una serie di strumenti per sostenere e rinforzare la motivazione di un altro, dell’atleta: e si tratta di un processo che si costruisce nel tempo, in modo faticoso e attraverso una relazione che deve essere significativa.

4617

Un altro conto è credere nell’esistenza di strumenti magici, istantanei, miracolosi per manipolare le relazioni umane.
[…]
Abbandonando la pretesa di possedere strumenti magici, più modestamente dovremmo porci degli obiettivi realizzabili.
In primis, noi possiamo evitare di azzerare le motivazioni persistenti nelle persone, il che non è poco.
Infatti se l’esistenza dei motivatori istantanei rimane un mito, la presenza di tanti eccellenti demotivatori è invece una realtà conclamata, nello sport come nelle organizzazioni (di tutti i tipi, vita sociale compresa, a volte anche familiare, ndr).
Il passo successivo da compiere è quello di sostenere questa auto-motivazione con tutta una serie di accorgimenti organizzativi (logici/mentali/emozionali, ndr).
Ma questo processo lento, faticoso e rispettoso, è qualcosa di ben diverso dall’idea presuntuosa di voler instillare a piacimento la motivazione nel prossimo.
E’ piuttosto simile al significato originario di ‘educare’, dal latino ‘educere’ ovvero ‘tirar fuori, far uscire’ quello che è già dentro.
[…]

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Ma la direttività (cioè l’autorità ndr) è anche rassicurante.
Perché sottrae alla responsabilità.
Usare troppa direttività, usarla troppo a lungo, fa sì che le persone alla fine ci si adattino in modo confortevole.
Ecco perché il bisogno di direttività, di un’autorità forte e costante maschera nell’adulto un bisogno infantile di rassicurazione e deresponsabilizzazione.
Il cerchio si chiude: troppa permessività o una accudimento totalizzante producono gli stessi effetti comportamentali di un’autorità schiacciante.
Azzerano il senso di responsabilità.”

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Vorrei sottolineare l’importanza di riflettere sull’ultimo sacrosanto concetto espresso …

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Imbecillità


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C’è una scala che misura l’imbecillità, con vari gradini da scendere. 
L’imbecillità amichevole, quella della volgarità. 
L’imbecillità ignorante, quella della superficialità.
L’imbecillità provocatoria, quella della arroganza.
L’imbecillità fondamentalista, quella dell’oscurantismo.
L’imbecillità fanatica, quella della vigliaccheria.
L’imbecillità truffaldina, quella della malafede.
L’imbecillità vanitosa, quella dell’autocompiacimento.
Ma in ogni caso, l’imbecille è imbecille a sua insaputa, poiché non sa riconoscere la sua mancanza di civiltà, di cultura, di coscienza, di sentimento, di comunicazione e di pensiero.

 

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Resilienza: l’arma segreta del ‘sapiens sapiens’ (II° parte)


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(la I° parte la trovate qui)

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“Per comprendere come funziona la motivazione, diventa essenziale il concetto di ‘resilienza’.
La resilienza è la capacità di persistere, di far durare la motivazione nonostante gli ostacoli e le difficoltà (nel libro RESISTO DUNQUE SONO ho approfondito il concetto soprattutto in relazione alla capacità di gestire lo stress).
Il termine ‘resilienza’ proviene dalla metallurgia: indica, nella tecnologia dei metalli, la resistenza a rottura dinamica ricavata da una prova d’urto.
In questo campo, la resilienza rappresenta il contrario di fragilità. Etimologicamente il termine ‘resilienza’ deriva dal verbo latino ‘resalio’, iterativo di ‘salio’.
Qualcuno propone un collegamento suggestivo tra il significato originario di ‘resalio’ (che connotava anche il gesto di risalire sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare) e l’attuale utilizzo in campo psicologico: entrambi indicano l’atteggiamento di andare avanti senza arrendersi, nonostante le difficoltà.
La differenza nell’intensità delle motivazioni umane si misura proprio nel loro grado di resilienza.
C’è chi rinuncia a un obiettivo neanche troppo sfidante al primo contrattempo.

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C’è chi, come Henri Charrière (al secolo Papillon), è riuscito a sopravvivere ai lavori forzati in Caienna per trenta atroci anni, perché motivato dal desiderio di riconquistare una libertà che gli era stata ingiustamente sottratta.
La potenza della motivazione umana è stupefacente.
Gli altri animali non sanno apprendere dalle sconfitte, esercitare la speranza nei contesti più sfavorevoli, rialzarsi e ricominciare a ricostruire da capo dopo le sventure.
Queste capacità umane non sono l’effetto del possesso di un fisico invulnerabile o di un potere soprannaturale.
La resilienza è una capacità cognitiva. Vale a dire che attiene al modo in cui elaboriamo le informazioni e ci rapportiamo con la realtà.
Come tutte le capacità umane, è incrementabile: tutti gli individui possono migliorarla, indipendentemente dalla dotazione di base che ricevono alla nascita.
Coltivare la resilienza però, come vedremo, è una disciplina.
Non ci sono formule magiche o scorciatoie. Va allenata, ma richiede tempo e dedizione.
Due parole sul termine ‘cognitivo’.
E’ importante evitare di cadere in certi equivoci. Cambiare la propria percezione del mondo non significa crearsi illusioni o raccontarsi menzogne. Significa, al contrario, diminuire il tasso di falsità, inesattezza o distorsione con cui costantemente leggiamo la realtà. Questo velo di contraffazione ha spesso la funzione di mantenerci all’interno della nostra area di comfort, proteggendoci dalla fatica di impegnarci per realizzare pienamente il nostro potenziale.

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E, attraverso continue endovene di vittimismo, ci consola del fatto che il mondo è cattivo e non ci merita; e che quindi noi non abbiamo nessuna responsabilità.
Il sistema cognitivo della persona resiliente scopre opportunità reali, non si inventa fantasmi consolatori.
La differenza tra la prima e la seconda opzione è che la prima si può tradurre in comportamenti che modificano in modo efficace la realtà, cioè in impegno.
Rimane solo un’ultima nozione generale riguardo la resilienza.
Il sistema cognitivo attiene al pensiero e origina dalle nostre strutture cerebrali; tuttavia è in strettissima relazione con il funzionamento del corpo e con la regolazione dei processi emozionali.
Per duemila anni in Occidente abbiamo vissuto nella falsa credenza che ‘mente’ e ‘corpo’ fossero separati.
Oggi sappiamo che non è così. I pensieri influenzano il funzionamento del corpo e viceversa.”

§

 

le Orme


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Non so se sia corretto da parte mia ‘depredare’ troppo a lungo l’ottimo libro di Ermanno Bencivenga (al quale, se dovesse passare ‘di qua’, chiedo sommessamente scusa), ma la tentazione è troppo grande …

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4611

Capitolo   LE ORME

“Le orme ce l’avevano a morte con i piedi, che erano dei gran presuntuosi.
Ogni volta che un piede si poggiava sulla sabbia, o sul cemento fresco, o sul soffice divano della sala da pranzo, compariva un’orma: in quello stesso momento, neanche una frazione di secondo dopo.
Il piede si poggiava e l’orma compariva, senza la più impercettibile sfasatura, il minimo ritardo.
Avrebbe potuto essere un rapporto alla pari, con orme e piedi che procedono affiatati e si rispettano e fanno ognuno la propria parte, ma vaglielo a raccontare ai piedi!
Loro si sentivano l’origine di tutto, il fondamento della vita. *Se non fosse per noi,* dicevano *voi non esistereste*.
Che importa quando comparite? Anche se compariste ‘prima’ che ci poggiamo, dipendereste da noi.
Nessuno si sognerebbe di dire che ci sono dei piedi perché ci sono delle orme: si dice sempre il contrario, e per buoni motivi.

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Poi un giorno qualcuno si presentò in negozio con una tuta impermeabile e un sifone di acqua gelida, e minacciò di annaffiare tutti se non gli davano l’ultima edizione del gioco ‘Caccia al ladro’.
I commessi spaventati si affrettarono ad accontentarlo e lui fuggì a destra e a sinistra.
Arrivò l’ispettore e dopo accurate ricerche trovò delle orme nella polvere di secoli. *Il nostro uomo deve essere passato di qui* concluse sicuro.
L’appuntato lo guardò con ammirazione e l’ispettore si lasciò andare a una delle sue frasi storiche, per le quali è giustamente famoso. *Se ci sono le orme* disse *ci devono essere anche i piedi*.
Per i piedi fu un brutto colpo. Le orme se la stanno ancora ridendo.”

§

Anche a voi, come a me, la ‘morale’ (o potremmo dire, meglio, l’insegnamento) è balenata come una esplosione nitidissima ?
Inoltre mi ha fatto pensare che, a questo mondo, tutto è utile ed inutile, necessario e superfluo, a seconda dei momenti e delle circostanze … uomini compresi …

§

Se un giorno …


§

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Si salgo un día a la vida
mi casa no tendrá llaves:
siempre abierta, como el mar,
el sol y el aire.

Que entren la noche y el día,
y la lluvia azul, la tarde,
el rojo pan de la aurora;
La luna, mi dulce amante.

Que la amistad no detenga
sus pasos en mis umbrales,
ni la golondrina el vuelo,
ni el amor sus labios. Nadie.

Mi casa y mi corazón
nunca cerrados: que pasen
los pájaros, los amigos,
el sol y el aire.

§§§

Se un giorno tornerò alla vita
la mia casa non avrà chiavi:
sempre aperta, come il mare,
il sole e l’aria.

Che entrino la notte e il giorno,
la pioggia azzurra, la sera,
il pane rosso dell’aurora;
la luna, mia dolce amante.

Che l’amicizia non trattenga
il passo sulla soglia,
né la rondine il volo,
né l’amore le labbra. Nessuno.

La mia casa e il mio cuore
mai chiusi: che passino
gli uccelli, gli amici,
e il sole e l’aria.

Marcos Ana

§

 

Impegno Talento Motivazione


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Continuando a leggere PERSEVERARE E’ UMANO si possono trovare spunti interessanti, concetti da considerarsi come ‘fondamentali’ riguardo il nostro modo di stare al mondo, per ricordarci (visto che pare si sia persa l’abitudine a pensarlo) che, in buona misura siamo noi stessi gli artefici del nostro destino.

Questo libro è stato scritto per meglio definire l’impegno sportivo ‘off limits’ (supermaratone, scalate estreme, triathlon), tutte pratiche che, al di là della spettacolarizzazione e dell’utilizzo a fini pubblicitari, mettono a dura prova i ‘limiti’ umani che, più spesso di quanto si sia portati a pensare, sono più nella nostra testa che nelle nostre potenzialità fisiche (ed ognuno ha le sue, evidentemente).

Il capitolo   IMPEGNO, TALENTO, MOTIVAZIONE

“Tutto ciò che abbiamo è il risultato di ciò che abbiamo pensato”
Gautama Budda

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“Recandosi una domenica in un centro commerciale si può assistere al naufragio dell’umanità.
Non saprei definire in altro modo un certo tipo umano sempre più diffuso nella nostra società, il cui comportamento è caratterizzato da da passività, apatia e disinteresse totale verso il mondo esterno, fatta eccezione per il consumo dei beni.
Sono gli effetti lontani di una cultura che rende gli individui passivi, perché celebra con la massima forza concetti fuorvianti come ‘ il talento’, insieme al suo braccio ‘scientifico’: la genetica da rotocalco.
Credere ciecamente che il nostro destino sia determinato esclusivamente dai geni o dalle predisposizioni naturali conduce alla passività e alla rassegnazione.
Fateci caso: oggi, in tutti i campi,le prestazioni di eccellenza vengono collegate al possesso di abilità innate.
O, come si usa dire, all’avere ‘talento’.
Il temine ‘talento’ rimbalza continuamente nelle aziende, nei titoli di trasmissioni televisive di successo, nelle analisi delle prestazioni sportive compiute da pubblico e organi di informazione.
Attenzione: non voglio sostenere che le abilità innate non contino e la genetica non abbia un peso sugli eventi. Tutt’altro.
Ma sottolineo il rischio di adottare (anche nei confronti di se stessi) una mentalità che invece di promuovere l’accento sull’impegno, sulle motivazione che lo favoriscono e sulla capacità di resilienza, preferisce pensare di recitare un copione immodificabile, dove il DNA o la fortuna o il Creatore hanno già scritto tutta la parte.
Il corollario implicito è: se le cose stanno così, noi non abbiamo nessun potere per gestirle o cambiarle.
Se per esempio definiamo qualcuno ‘non portato per la matematica’ gli stiamo implicitamente dicendo due cose: la prima è che se va male in matematica in fondo la colpa non è del tutto sua, perché non ha ricevuto nessun dono a questo proposito; la seconda è che d’ora in avanti può evitare di impegnarsi per cambiare la situazione, perché essa non è modificabile per definizione.
Questa mentalità è dura da estirpare perché i suoi vantaggi a breve termine sono notevoli: de-responsabilizzazione e fuga dalla fatica e dall’impegno. I problemi sono gli svantaggi sul lungo periodo.
Nel tempo, gli svantaggi consistono nel fatto di crearsi una serie di limiti e di barriere auto-indotte.
Portata all’estremo questa situazione richiama una condizione sperimentale che si può ottenere con gli animali in laboratorio: la ‘impotenza appresa’.

4607
Immaginate una gabbia divisa in due da una piccola saracinesca.
Ora alzate questa saracinesca.
Se insegnate a un animale in gabbia a sottrarsi alle scariche elettriche generate nel pavimento di una delle due zone saltando dall’altra parte, l’animale sopravvive egregiamente.
Quando avverte l’impatto della scarica, balza velocemente nell’altra zona della gabbia. In qualche modo – in questa fase dell’esperimento – la cavia avverte che la situazione è sotto il suo controllo. Ciò lo preserva dallo stress della situazione.
Ora toglietegli il controllo e insegnategli che non può fare nulla per cambiare la situazione.
Basta abbassare la saracinesca in modo che l’animale non possa più saltare dall’altra parte per sottrarsi alle scosse. All’inizio l’animale tenta ancora con tutte le sue forze di saltare o cerca in tutti i modi di sottrarsi alle scariche.
Poi apprende l’impotenza, cioè che non può far nulla per cambiare la sua situazione.
Dopo un po’ di tempo si sdraia sul pavimento, A volte finisce per lasciarsi morire limitandosi a sussultare debolmente se ancora gli vengono somministrate delle scariche.
La cosa più stupefacente dell’impotenza appresa è che quando l’animale ha imparato che non può cambiare la propria situazione in nessun modo, questo apprendimento è così radicato che continua a crederci anche quando le circostanze cambiano.
Se infatti lo sperimentatore ritorna ad alzare la saracinesca come all’inizio, l’animale a questo punto non percepisce che la situazione è mutata, che può salvarsi. Non riesce a crederci.
E così rimane apatico e rassegnato benché la salvezza sia lì a un passo.
Inutile aggiungere che l’impotenza appresa rappresenta l’opposto della resilienza.”

§

A parte la crudeltà dell’esperimento descritto che mi rattrista (e fosse l’unico mai fatto dall’uomo a scapito degli animali …) debbo convenire che descrive perfettamente il concetto che si voleva veicolare.
Gran parte delle risposte sono nella nostra testa.
E dobbiamo amaramente constatare che gli esseri umani che subiscono pesantemente la ‘impotenza appresa’ sono moltissimi e, ogni giorno di più, perdono l’abitudine e la capacità di impegnarsi, lottare, pensare …

§

la Rete


§

Questa favola (l’ennesima ‘depredata’ al buon Bencivenga) non ha assolutamente un risvolto ed una morale a sfondo politico ma, appena ho iniziato la lettura, causa anche la descrizione fatta ed il nome, non ho potuto fare a meno di pensare insistentemente ad un ‘altro’ Italico Cavaliere  …
un ‘Cavaliere’ molto famoso e molto ‘pernicioso’ … 

per la morale penso che ognuno possa trarre quella che preferisce, quella che sente maggiormente vicina;
personalmente dico solo che l’aumento della tecnologia corrisponde immancabilmente ad una diminuzione di ‘umanità’ e che quindi (come per tutte le cose) non bisogna mai esagerare ed eccedere.

Il libro è sempre quello   😉   
Capitolo    LA RETE

4605

“Da qualche tempo, la rete è in avaria.
Tecnici altamente specializzati hanno controllato i cavi, gli interruttori, i tubi catodici e anodici; hanno fatto ripartire il sistema, lo hanno sottoposto ai più raffinati e aggiornati programmi antivirus, antihacker, antispyware; e non sanno capacitarsi.
Tutto sembra in ordine, il che vuol dire che gli elettroni dovrebbero marciare allineati e coperti verso le mete previste, disporsi nell’assetto convenuto e accendere lo schermo con le loro evoluzioni, rischiose magari ma calcolate al milionesimo di millimetro, come quelle delle Frecce Tricolori il giorno della festa nazionale.
Eppure, ogni tanto, una Freccia Tricolore si schianta al suolo e nessuno ne comprende il motivo; e lo stesso sta capitando con la rete.
Uno digita il suo nome di utente, inserisce la password e non accade nulla: gli elettroni giacciono pigri nelle loro orbite, lasciandosene beatamente dondolare. oppure si agitano furiosi saltando qua e là, ma senza costrutto, gettando al massimo qualche misterioso bagliore su uno schermo desolatamente privo di ogni informazione sensata.
Il cavalier Alessio De Mente, studioso di fama rionale, vincitore di numerosi premi nei concorsi ‘Botta e risposta’, ha dichiarato che è tutta colpa dell’anidride carbonica.
Non sono solo le calotte polari a sciogliersi. spiega: anche gli elettroni non possono compiere il loro dovere se la temperatura, l’inquinamento e il prezzo del petrolio non rimangono entro limiti precisi.
Sono saltati tutti i valori, incalza il cavalier De Mente; l’uomo ha violato la natura; non si stupisca dunque e non si adonti (al cavalier De Mente piace molto la parola ‘adontarsi’ e trova sempre il modo di usarla), se le orbite atomiche si ribellano alle aspettative.

4548

Teresina sa che le cose stanno diversamente.
Perché sa che tutto è cominciato dal suo schermo, quando gli altri ancora non davano noia.
C’era questo scambio di messaggi elettronici che lei stava conducendo con un giovane gaucho della Patagonia: aveva parlato di rock progressivo, di pantaloni alla zuava e dell’ultimo modello di telefono cellulare, quello con cui ci si può anche preparare una frittatina per colazione, e stavano cominciando a parlare di come il loro cuore palpitava a ogni nuovo invio, di come fra un invio e l’altro questo scambio rimaneva nei loro pensieri con una costanza allarmante, e forse un giorno uno dei due avrebbe potuto prendere un dirigibile e finire in Patagonia (o viceversa).
Ma a quel punto Teresina si è spaventata, ha spento il computer e non ha più voluto sentire nulla e nessuno.
E gli elettroni hanno reagito.
Il cavalier De Mente e tutti gli altri grandi studiosi che vincono premi hanno un bel dire che gli elettroni si muovono meccanicamente, con assoluta prevedibilità, e che se fanno qualcosa di strano è per via della temperatura e del prezzo del petrolio.
Gli elettroni invece ci vedono, ci ascoltano e cambiano percorso a seconda dell’impressione che gli diamo.
In questo caso hanno avuto l’impressione che Teresina volesse rimanere tranquilla e si sono adeguati.
Poi si sono passati la voce e hanno deciso che, se Teresina deve davvero stare tranquilla, il mondo intero deve rallentare la sua corsa.
Vedrete come si rimetteranno a marciare allineati e coperti, nonostante l’aumento della temperatura, appena Teresina avrà ripreso coraggio.”

§

gli Odori


§

Bencivenga scusami, se puoi, ma io saccheggio
(ma son troppo belle le tue favole)
Capitolo   GLI ODORI

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4548

“Una volta gli uomini sentivano gli odori dov’erano, come tutte le altre cose che sentivano.
Sapete come succede ai rumori, sapori e tutto il resto: il rumore del treno lo sento dov’è il treno, non nelle orecchie, e il gusto del lampone lo sento sulla lingua perché e lì che sta il lampone.
Il sole lo vedo nel cielo, non negli occhi, e il morbido del tappeto lo sento sotto i piedi perché i piedi ci stanno sopra.
Ecco, allo stesso modo gli uomini sentivano l’odore di una rosa là dice c’era la rosa: se la tenevano in mano sentivano un odore vicino, e se invece era a dieci passi di distanza un po’ spostata sentivano un odore a dieci passi, un po’ spostato a sinistra.
Ma non poteva durare.
Tutto andava a meraviglia finché si trattava di rose e lamponi, ma c’erano grossi problemi con le cose che puzzano.
Se una cosa non voglio vederla mi giro dall’altra parte, e se qualcuno fa un rumore fastidioso posso pregarlo di smettere.
Se non mi piacciono le prugne non le mangio, e se la pentola scotta non ci metto le mani su.
Con le puzze, però, girarsi dall’altra parte non serviva, o tenere le mani in tasca, o chiedere gentilmente di fare un buon odore.
Così, siccome di puzze ce n’erano in giro tante, gli uomini vivevano una vita infelice, dominata dal fetore.
Fu per questo che. quando uno di loro vinse alla lotteria e gli concessero tre desideri, l’uomo non ebbe dubbi.
Da allora gli odori si sentono tutti nel naso, anche se sono altrove.
Se una puzza ci da fastidio basta avvicinare al naso un fazzolettino imbevuto di acqua di colonia: la puzza rimane fuori e noi possiamo continuare a vivere felici e contenti.”

§

4601

Avete tutti il fazzolettino (ben imbevuto, mi raccomando)?
In caso contrario sareste infastiditi dagli effluvi di un Paese che sta sempre più diventando graveolente a causa delle azioni dei suoi amministratori e politici … la ‘flatulenza’ al potere …

§

Extracomunitario ??? No !!! … Extraterrestre …


§

§

Questo è il testo della bella canzone (francese) da lui interpretata

Pourquoi je vis, pourquoi je meurs
Pourquoi je ris, pourquoi je pleure
Voici le S.O.S.
D’un terrien en détresse
J’ai jamais eu les pieds sur Terre
J’aim’rais mieux être un oiseau
J’suis mal dans ma peau

J’voudrais voir le monde à l’envers
Si jamais c’était plus beau
Plus beau vu d’en haut
D’en haut
J’ai toujours confondu la vie
Avec les bandes dessinées
J’ai comme des envies de métamorphose
Je sens quelque chose
Qui m’attire
Qui m’attire
Qui m’attire vers le haut

Au grand loto de l’univers
J’ai pas tiré l’bon numéro
J’suis mal dans ma peau
J’ai pas envie d’être un robot
Métro boulot dodo

Pourquoi je vis, pourquoi je meurs
Pourquoi je crie, pourquoi je pleure
Je crois capter des ondes
Venues d’un autre monde
J’ai jamais eu les pieds sur Terre
J’aim’rais mieux être un oiseau
J’suis mal dans ma peau

J’voudrais voir le monde à l’envers
J’aim’rais mieux être un oiseau
Dodo l’enfant do

 

§

Ho scoperto che il cantante è Dimash Kudaibergenov nato nel 1994 nel Kazakistan;
La sua gamma vocale copre cinque ottave e canta in diverse lingue …

§

il pensiero di Gustav


§

4604

“I bambini provengono dal regno dello splendore della Luce dal regno delle cause prime e delle immagini perenni,
poi scivolano giù, nel regno della “coda del Pavone ” …
nella terra dei colori, delle fantasie e delle fiabe dai riflessi cangianti;
infine, precipitano sulla Terra, gelata da leggi irrigidite e, nella caduta, dimenticano da dove sono venuti.
Si rammentano poi, oscuramente, solo del regno della “coda del Pavone”;
per questo ascoltano così volentieri le fiabe.
Dimenticano infine anche quello;
non percepiscono più, non riconoscono più il proprio animo poiché vengono allevati dai “genitori sociali” a divenire cadaveri ambulanti.”

(Gustav Meyrink – La Casa dell’Alchimista)

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Immagine e testo tratti da  Realtà, inganno e manipolazione

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Italia 2000


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L’ultima ‘performance’ televisiva di ‘EuNgenio’ Scalfari non fa che confermare che la fanta-politica è diventata quasi uno sport nazionale in Italia.
Nel senso, ovviamente, che all’ordine del giorno sono ormai gli inciuci, l’impossibile che diventa probabile, i ‘nemici’ che diventano ‘amici’, i sinistri che diventano ambidestri, e pure le ‘vecchie menti’ disquisiscono e distribuiscono perle di inspiegabile insensatezza;
e pensare che eravamo un Paese di Poeti, Navigatori & Santi mentre ora siamo Leader di burocrazia, corruzione e malaffare (per non parlare del livello dell’informazione);
e dobbiamo anche sentire coloro che hanno prodotto questo sconquasso accusare ‘altri’ di essere dei dilettanti allo sbaraglio … mentre ‘loro’ hanno fatto più danni dei ‘Barbari’ e dei ‘Lanzichenecchi’.

Quello che vado a trascrivervi ora, Umberto Eco lo scrisse, un quarto di secolo fa, con un quasi inarrivabile taglio ironico/satirico e con quel quid di preveggenza fantascientifica che è data solo ai ‘grandi’.
Dal solito libro, ovviamente …

Capitolo  ITALIA 2000

“Alla fine del millennio l’Italia era divenuta una confederazione che formalmente collegava la Repubblica Norditaliana, lo Stato Pontificio, il Regno delle Due Sicilie e il territorio libero di Sardegna.
Ma Itaglia (è scritto così nel testo ndr), la capitale federale costruita all’Elba, ospitava praticamente solo il SIG (Servizio Informazioni Gladio), ed era continuamente devastata da attentati, così il palazzo del governo, la Casa del Tricolore – peraltro deserto – aveva dovuto essere progettato dalla Portoghesi & Gregotti Associati come bunker neogotico.
La Sardegna, trasformata dall’Aga Khan in una immensa bisca galleggiante, con ampie piscine sugli altopiani (le antiche spiagge ospitavano basi navali siriane), godeva di incredibile prosperità.
Il Regno delle Due Sicilie, sotto la dinastia dei Carignano d’Aosta, liberandosi dal Nord era rifiorito.
Nel 1995, nel corso dei sanguinosi Vespri Lombardi, i cittadini del Norditalia venivano obbligati, armi alla mano, a pronunciare la frase ‘ent’el cù’, e tutti coloro che dicevano ‘chiù’ venivano deportati oltre la Linea Gotica.
L’emigrazione forzata dei pizzaioli aveva creato un asse Posillipo-Brooklin (Pizza Nostra): ingenti quantità di grano americano venivano inviate sottocosto, per produrre calzoni per l’immenso mercato africano.

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Le varie città delle Due Sicilie avevano venduto ai musei americani tutte le statue di Mazzini e Garibaldi nonché i monumenti ai caduti, e a un’asta da Christie un Nino Bixio in bronzo aveva fruttato al comune di Bronte ottanta miliardi di dollari.
Gela era diventato il principale porto di distribuzione del petrolio irakeno.
Lo Stato Pontificio (dal Rubicone a Cassino) aveva dato in gestione a impresari giapponesi gli Uffizi, i musei vaticani, il palazzo ducale di Urbino, e la rinata Bagnoreggio era divenuta il centro mondiale di produzione dei Davies, statuette michelangiolesche in plastica che potevano essere vestite da cardinale, da ussaro, da cowboy, con cambio di pannolini e possibilità di introdurre supposte nel sederino. Un business miliardario.
Liberata dalla pressione della burocrazia sabauda, Roma era tornata ai tempi aurei, con un florido ghetto al Portico d’Ottavia che serviva da porto franco per gli Emirati Arabi.
I turisti accorrevano da tutto il mondo per assistere alle esecuzioni capitali (molto apprezzato il taglio del pene a chi veniva sorpreso a contrabbandare opere di Moravia).
L’improvvisa ricchezza aveva però inciso negativamente sulla classe dirigente ecclesiastica: si era persino scoperto che con il nome di Moana I era stato eletto dal Conclave un travestito brasiliano.
Severa crisi economica, invece, per il Norditalia.
Privato di un sbocco sui mercati mediterranei, esso trovava difficoltà a vendere vini alla Francia, orologi alla Svizzera, birra alla Germania, calcolatori al Giappone e il nuovo modello Alfa Romiti alla Svezia.
L’espulsione dei meridionali e il calo della natalità aveva creato una crisi industriale (da cui rimaneva esclusa la sola Pirelli che produceva i diffusi anticoncezionali Pirlax).
Dapprincipio erano stati precettati alle catene di montaggio gli studenti della Bocconi, poi ci si era rassegnati ad accogliere gli immigrati russi. Risultato, un razzismo strisciante, ‘volgavolga’ era diventato un insulto sanguinoso, apparivano cartelli con ‘Non si affitta ai mugiki’.

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Il Norditalia soffriva del ‘terremoto migratorio’.
I tedeschi dell’Est avevano cacciato i lavoratori turchi, che si erano trasferiti in Spagna, ritornata in breve un paese musulmano, con intensi vincoli d’affari con l’Emirato di Gerusalemme; per eccesso di manodopera dell’Est i lavoratori tedeschi avevano invaso la Francia (attraversavano la Marna a nuoto e si precipitavano verso Parigi in lunghe teorie di taxi) mentre i lavoratori africani, ricacciati dal Norditalia alla Linea Gotica e dai tedeschi a Marsiglia, si erano riversati nella Mitteleuropa.
Dapprima diffidenti verso questi ambulanti chiamato spregiativamente ‘woll-du-kau’ (vu’ cumprà, no?, ndr), i tedeschi erano stati infine costretti ad accettare la costituzione di un Deutsch-Afrikanisches-Kaisertum, offrendo la corona di ferro a Friederich Aurelius Luambala I.
Stretta a nord dalla pressione africana e bandita dai mercati meridionali, la Repubblica Norditaliana viveva ormai un periodo di declino economico.
Sulle statue del Fondatore Bossi mani ignote scrivevano di notte ‘ent’el cù’.”

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Certo è che per scrivere un testo del genere, e nel 1991, è indispensabile essere un po’ ‘Dada’ e avere una cultura adeguata, altrimenti si rischia solo di sembrare patetico.
Un testo che fa sorridere (a volte proprio ridere) ma, un poco, anche pensare …

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il problema del 4


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Abituale ‘Bencinvenga corner’
con tutte le sue perifrasi,
metafore e allegorie
ed ovviamente … “morali”

Capitolo
IL PROBLEMA DEL QUATTRO

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“Un giorno il numero quattro si stancò di essere pari.
I numeri dispari, pensava, sono molto più allegri e spiritosi.
E si stancò di quella sua forma un po’ insipida, a sediolina.
Guarda il sette, si diceva, com’è svelto ed elegante, e il tre com’è tondo e arguto, e io invece sono tutto pieno di angoli e privo di personalità.
E si stancò di essere due più due, che tutti lo sanno e anzi, quando vogliono dire una cosa che sanno tutti, dicono: *Quanto fa due più due?*.
Sognava di essere un numero lungo e complicato, di quelli che te li dimentichi sempre e se li vuoi sommare devi prendere carta e matita.
Certo è un bel problema, perché non è che il quattro volesse diventare un altro numero, che so io?, il cinque, o il 1864372 (*).
Lui voleva essere lui, rimanere se stesso, eppure voleva anche essere come il cinque, dispari cioè, o come il 1864372, cioè lungo e complicato.
E sembra proprio che il quattro non possa essere dispari e non possa essere lungo e complicato, oppure non sarebbe il quattro, sarebbe un’altra cosa, e lui non voleva essere un’altra cosa: voleva essere lui, solo un po’ diverso.
Un problema così il quattro non sapeva risolverlo.
Forse non aveva neanche una soluzione.
Se ce l’aveva, però, il Grande Matematico doveva conoscerla.
Così il quattro andò dal Grande Matematico e gli espose il suo caso.
Il Grande Matematico sorrise.

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Anche lui una volta avrebbe voluto essere diverso: non un altro, ovviamente, perché voleva rimanere se stesso, ma un po’ più simile al Grande Ballerino, o al Grande Tennista, o al Grande Centravanti.
Anche lui, quindi, aveva avuto il problema del quattro e sapeva come affrontarlo.
Lo fece accomodare per terra (una sedia sarebbe proprio stata inutile!) e cominciò a parlargli.
*Vedi, quattro,* disse *non c’è bisogno di diventare diverso, di essere dispari per esempio, oppure lungo e complicato.
Non c’è bisogno perché tu sei già diverso, anche se non te ne rendi conto.
A te sembra di essere una stupida sediolina che fa due più due e tutti lo sanno, ma ci sono cose in te che nessuno ha, cose molto speciali.
Per esempio, tu sei due più due ma anche due per due, e anche (qui andiamo sul difficile) due alla seconda.
E questo è un fatto del tutto straordinario: tre più tre non è anche tre per tre, e certo non è tre alla terza.
Oppure prendi quest’altra: quattro per quattro sommato a tre per tre fa cinque per cinque, il che vuol dire che tre, quattro e cinque sono una famiglia di numeri pitagorici consecutivi, e di famiglie così non ce ne sono altre.
Il sette che tu ammiri tanto, non ne ha una.
Oppure…*
Ma a questo punto il quattro era un po’ confuso e pregò il Grande Matematico di smettere.
Quella faccenda dei numeri pitagorici non la capiva proprio e voleva pensarci su, perché gli sembrava importante.
Se ne andò, e ora è lì che conta.
Ha capito i numeri pitagorici e molte altre cose, e ogni giorno scopre di essere più diverso.”

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Che dire ?
la morale della favola è talmente evidente
è semplicemente da … Standing ovation …

Curiosità : la somma delle cifre che compongono il numero 1864372 se sommate tra loro sapete che numero formano ?
(1 + 8 + 6 + 4 + 3 + 7+ 2) = 31 >>> (3 + 1) = 4 … ma guarda un po’ … (sarà un caso ???)

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