By Alfredo
Perché si ha bisogno di ridere ?
Principalmente perché viviamo giornate piene di tensioni, preoccupazioni, incomprensioni, e una sana risata resetta tutto, perlomeno fino alla prossime…
Poi ci sarebbe da intendersi su cosa faccia ridere: c’è comicità umoristica, satirica, anche intelligente, e quella triviale, caciarona, in cui il “casino” è condizione sine qua non.
D’altra parte il senso dell’umorismo o ce l’hai o non lo puoi imparare.
Poi c’è tutto il main stream che – scientificamente – ti vomita addosso, ogni giorno, una quantità industriale di notizie “terroristiche”, ansiogene, che destabilizzano gli incerti equilibri esistenziali di molti, indotti a vivere preoccupandosi solo di “riuscire a farcela”, parafrasando il noto tema del bambino napoletano: “Io speriamo che me la cavo”.
Allora mi viene in mente il vecchio motto anarchico: “Una risata vi seppellirà”.
Fatte queste considerazioni, scusate eh, ma ne avevo bisogno, mi è facile scegliere il TALLERO di giornata… eheheh
UN UOMO SCIVOLA E CADE.
PERCHE’ SI RIDE ?
Da sempre i due modi opposti ed estremi con cui l’uomo manifesta le proprie emozioni sino il pianto e il riso.
Nell’antichità il pianto era considerato più nobile e gli attori comici venivano ritenuti poco rispettabili.
Tuttavia, proprio quest’epoca generò il più grande commediografo di tutti i tempi, Aristofane.
Ma agli inizi del Novecento il comico acquista cittadinanza filosofica grazie a un pensatore spiritualista e spiritoso, Henri Bergson (1859-1941).
Da secoli i filosofi non riuscivano a spiegare perché si rida. Bergson cercò di svelare il mistero in un libro rimasto classico: IL RISO.
*Un uomo corre per la strada inciampa e cade, i passanti ridono… Una pietra era forse sulla via, bastava rallentare il passo o sviare l’ostacolo.
Ma per mancanza di agilità, per distrazione o rigidità del corpo… i muscoli hanno continuato a compiere il movimento di prima quando le circostanze ne richiedevano un altro… e di ciò i passanti ridono* (cfr. Il riso).
L’uomo però, deve uscire indenne dalla caduta, altrimenti nessuno riderebbe, ma scatterebbe piuttosto un senso di pietà.
E’ con questo esempio classico che si apre la trattazione sul riso di Bergson. Il pensatore francese se ne serve per illustrare il principio essenziale, già sancito da Aristotele, secondo cui il comico deve essere indolore e innocuo: è cioè necessario che né colui che ci fa ridere né i suoi spettatori provino dolore o subiscano danno. Accanto a questo requisito essenziale Bergson valorizza pure il carattere di complicità sociale del comico, per cui si ride di più e meglio se si è in compagnia. Sin qui si dirà, niente di nuovo.
Ma in realtà l’analisi di Bergson è particolarmente illuminante su alcune caratteristiche della comicità. Anzitutto egli sottolinea un suo aspetto a cui solitamente non si pensa.
Il comico funziona, per lui, come un anello di Gige al contrario: invisibile a se stesso, ma visibile a tutti gli altri.
Chi suscita il riso è spesso l’unico a non rendersene conto. Un prova? Ognuno di noi ha la sua tipica gestualità, più o meno sfruttabile a fini caricaturali. Ma finché non ci accorgiamo che i nostri gesti più meccanici possono suscitare l’ilarità altrui, difficilmente modofichiamo il nostro comportamento esteriore. Se qualche nostro tic fa ridere è perché non ce ne accorgiamo. Sin qui nella vita. Il teatro poi è *a un tempo semplificazione ed esagerazione della vita*.
[…]
C’è un infantilismo di fondo nel riso. I bambini ridono più spesso e volentieri
degli adulti. Per questo le tecniche teatrali del comico, secondo Bergson, sfruttano i meccanismi di certi giochi infantili e li trasferiscono sul palcoscenico. Per esempio un gioco che ha sempre divertito i fanciulli è quello della palla di neve che rotolando diventa via via più grande: un fattore dall’apparenza insignificante finisce col produrre effetti inaspettati e abnormi.
Quella di Bergson era l’epoca del trionfo del cinema muto , e parecchie gag di quei divi della risata,
come Buster Keaton e Charlie Chaplin, erano fondate proprio sulla scatenarsi di effetti a valanga: *Ecco per esempio, un visitatore che entra in una sala precipitosamente, urta una signora che versa la sua tazza di tè su un vecchio signore, il quale sdrucciola contro un vetro che cade nella via sulla testa di un agente il quale, a sua volta, fa accorrere tutta la polizia* (Ibid.)
Ma qual’è il significato che collega fra loro queste situazioni comiche?
L’ultimo capitolo del libro di Bergson risponde appunto a questa domanda, delineando i tratti essenziali sia del comico che del riso.
Anzitutto il comico e il riso non sono la stessa cosa, ma piuttosto il comico è la matrice da cui scaturisce il riso. Bergson insiste sul fatto che il comico non è un fenomeno puramente estetico, ma appartiene alla vita quotidiana non meno che all’arte.
In entrambi i casi si tratta di un’imperfezione che non deve essere nè grave né gravemente disonesta. E’ infatti essenziale che essa non ci commuova, ma mantenga il suo carattere di leggerezza.
[…]
Bergson riprende un’idea che già aveva dominato il mondo antico, soprattutto Teofrasto discepolo di Aristotele, e il commediografo Menandro:
l’idea che la commedia che voglia suscitare il riso debba essere ‘una commedia di caratteri’.
Nel IV Secolo a.C si era scatenata una vivace polemica fra i commediografi seguaci di Aristofane e quelli seguaci dell’aristotelismo. Per Aristofane la commedia ha bisogno di aggredire per poter far ridere: aggredire i potenti come il dittatore Cleone, aggredire le deviazioni sessuali come le effeminatezze di Clistene.
Invece gli aristotelici facevano loro il motto ‘non invettiva, ma caricatura’. Così la commedia di Menandro era tutta basata su un quadro caricaturale di caratteri: l’avaro, il chiacchierone, lo scroccone.
Per Bergson la commedia di carattere è quella che più incarna la natura del comico: *La natura dipinge caratteri che abbiamo incontrato, che incontreremo ancora sul nostro cammino; essa nota le rassomiglianze e tende a mettere sotto i nostri occhi dei tipi particolari… noi diciamo ‘un Tartufo’, mentre non diremmo mai ‘una Fedra’* (Ibid.)
Concludendo, Bergson valorizza il riso soprattutto perché *corregge i costumi*, sulla falsa riga di Orazio: *Ridentem dicere verum quid vetat?*
(Che cosa impedisce di dire la verità ridendo? Satire. 1, 1, 24-5).
Ciò è possibile anzitutto perché, secondo lui, il riso denunzia chi è conformista al potere, in quanto si comporta come un automa. Se un capo di stato starnutisce nel corso di un suo discorso solenne nel quale inneggia ai sacri valori pattriottici, chi ha il coraggio di riderne induce alla trasgressione, tantopiù che il riso è contagioso, trattandosi di una sorta di liberazione o di sfogo di un impulso represso. Con una immagina icastica Bergson sentenzia che in campo sociale i comportamenti rigidi e automatici sono comici, e il riso ne è il castigo.
E’ passato quasi un secolo, ma da allora non si è trovata una definizione più calzante di questa”.
Mi auguro, ancora una volta, di avervi dimostrato che ‘tutto è scritto’.
Il pensiero umano è stato esplorato in lungo e in largo, e tutti i pensatori illuminati, ci hanno lasciato le loro interpretazioni.
C’è chi li usa per diffondere la cultura, e chi – viceversa – li usa , servendosi delle ‘matrici’ per scopi personali e/o commerciali, politici, pubblicitari, manipolando, imbastardendo così il pensiero originale nelle sue intenzioni costitutive.
Ora vi saluto… mi sa che oggi, per me, sarà un’altra giornata con poco riso…
By Alfredo
Se posso essere d’aiuto …
non fare complimenti …
Claudio 😉