Il suicidio perfetto dell’Occidente


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Il neo primo ministro neozelandese Jacinda Ardern, una donna di 38 anni, ha affermato che il benessere collettivo ma anche individuale non dipende né dal Pil né dalla produttività né dalla crescita economica. Ci voleva un politico neozelandese per scoprire l’acqua calda e cioè che non è la ricchezza delle Nazioni, tanto cara a Adam Smith, né del singolo individuo a dare non dico la felicità, “parola proibita che non dovrebbe essere mai pronunciata”, (Cyrano, se vi pare…), ma quel relativo benessere individuale che l’uomo può raggiungere.

Edoardo Agnelli, erede della più grande impresa italiana, si è suicidato a 46 anni gettandosi giù da un ponte. Athina Onassis, moglie del famoso armatore, morì a 45 anni per abuso di droghe e identica sorte è toccata a sua figlia Christina a soli 37 anni. E’ solo un ridottissimo florilegio dei ricchi e famosi o dei figli dei ricchi caduti nella droga, nella depressione, a volte nel suicidio. Ma restano pur sempre casi individuali. Più significativo è che in Cina, da quando è iniziato il boom economico, il suicidio è la prima causa di morte fra i giovani e la terza fra gli adulti. I paesi scandinavi, ben ordinati e organizzati, hanno il più alto tasso di suicidio in Europa, in Italia, nella ricca Padania i suicidi sono 1628 per 100.000 abitanti, in Meridione 478 ( dati Istat 2010).

Non si tratta quindi semplicemente di riorganizzare il Pil togliendogli tutti quei fattori che lo aumentano per inserirne degli altri che li sostituiscano come sostiene il mio spurio emulo Maurizio Pallante autore del famoso e infelicissimo brocardo La decrescita felice. La questione è molto più profonda e ha poco a che vedere con i numeri comunque li si voglia combinare. E’ un’armonia complessiva quella che è venuta meno col modello di sviluppo occidentale che ha ormai occupato quasi tutto il mondo, sfondando anche culture che ne erano lontanissime, come quella indiana e cinese (Il libro della norma di Lao Tse, che fonda millenni di pensiero orientale, si dedica esclusivamente alla ricerca interiore e spirituale e predica la “non azione”). Il processo che ha portato alla disfatta attuale, collettiva e individuale, sul piano psichico e nervoso ha inizio con la Rivoluzione industriale (metà del diciottesimo secolo) e l’Illuminismo che l’ha razionalizzata nelle forme del capitalismo liberista o del comunismo di radice marxiana.

Nevrosi e depressione sono malattie della Modernità e non a caso colpiscono inizialmente la borghesia, cioè le classi più ricche, cosa che farà la fortuna di Freud e della psicoanalisi. Non esistevano nei cosiddetti “secoli bui”, come non esistono tuttora nelle poche comunità che hanno conservato costumi e ritmi di vita tribali. Nei “secoli bui” c’erano certamente lo psicopatico e lo schizofrenico che sono però malattie psichiatriche individuali e non sociali. Tra l’altro in quelle culture avevano elaborato un pensiero che inglobava nella società anche questi soggetti (“il matto del villaggio”) ritenendo che avessero un rapporto diretto e particolare con Dio.

Negli Stati Uniti, il paese tuttora più ricco del mondo, che gode anche delle rendite di posizione dategli dalla vittoria nella seconda guerra mondiale, più di un americano su due fa uso abituale di psicofarmaci, è tutta gente che non sta bene nella propria pelle. Il fenomeno della droga propriamente detta, all’inizio appannaggio, si fa per dire, dei ricchi ha raggiunto tutti i ceti sociali e in particolare i ragazzi che pur hanno dalla loro il bene più prezioso e prelibato: la giovinezza.

Come si spiega tutto questo? Col modello di sviluppo che, coll’ottuso ottimismo di Candide, abbiamo creato: raggiunto un obiettivo dobbiamo inseguirne immediatamente un altro e poi un altro ancora, salito un gradino salirne un altro e poi un altro, un processo che ha fine solo con la nostra morte. E’ un modello che ho definito “paranoico” perché non ci consente di raggiungere mai un momento di equilibrio, di armonia, di pace. Noi siamo come i levrieri, fra gli animali più stupidi della terra, che al cinodromo inseguono la lepre di stoffa che, per definizione, non possono raggiungere. Ludvig von Mises, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici del capitalismo industriale, lo dice a chiare lettere ma declinando la cosa in termini positivi: ”il vagabondo invidia l’operaio, l’operaio il capo officina, il capo officina il dirigente, il dirigente il proprietario che guadagna un milione di dollari, costui quello che ne guadagna tre”. Ma questa invidia è necessaria e consustanziale al ‘sistema’ per usare un termine sessantottino. Noi dobbiamo consumare alla massima velocità possibile ciò che altrettanto velocemente produciamo. Negli ultimi decenni il processo si è addirittura invertito: noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per poter produrre. Ma l’anomalia è presente fin dall’origine nel sistema se l’aveva già notata, con un certo sbigottimento, Adam Smith. Siamo stati ridotti da uomini a consumatori e non ci rendiamo nemmeno conto della degradazione tanto che esistono Associazioni di consumatori.

E’ quindi l’attuale modello di sviluppo che va sbaraccato dalle radici. Ma nonostante esistano, in modo carsico quanto spesso confuso, correnti di pensiero antagoniste non avremo il tempo di farlo. Non saremo noi a uccidere il modello, ma il modello a collassare su se stesso, in modo improvviso, globale, data l’interconnessione mondiale, probabilmente nel giro di poche settimane. Questo lo sanno anche i ’padroni del vapore’, almeno i più avveduti, ma continuano a drogare il cavallo già dopato contando che schiatti quando loro saranno usciti di scena e le generazioni a venire non potranno nemmeno più impiccarli al più alto pennone. Se avessero un po’ di cultura potrebbero, invece di parlare di un futuro inesistente e con un falso patetismo dei nostri figli e dei nostri nipoti, dire con Oscar Wilde: “che cosa hanno fatto i posteri per noi?”.

Massimo Fini

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testo tratto da   Ragione Critica

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Improduttività metro dell’Uomo


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Mi chiedo se sia un caso che tutte le persone che trattiamo come se fossero inferiori, come se la loro vita fosse meno importante (anziani, diversamente abili, “pazzi”, tossicodipendenti, senzatetto, carcerati), abbiano una caratteristica in comune: l’improduttività.

Misuriamo il valore di una vita in base a quanto sia materialmente utile per noi e ci disfiamo delle persone che disturbano la nostra produttività.

Persi nella traduzione

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testo tratto da  Deviance Project

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Già … “misuriamo” … quindi tutti noi.
Se non direttamente permettendo di farlo a chi governa il mondo ed ai loro ‘servi’ … mercati e multinazionali, politici e media.

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no … no es fuego


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L’Amazzonia è invasa dalle fiamme.
Gli incendi che la stanno colpendo sono aumentati rispetto allo scorso anno e si sommano all’inarrestabile deforestazione. Non è possibile considerare questi incendi come spontanei o legati al cambiamento climatico (che pure ci vedrebbe responsabili), poiché nel clima umido delle foreste pluviali “per dare il via a un incendio serve il contributo umano, che sia deliberato o accidentale”.
Perché qualcuno dovrebbe fare intenzionalmente una cosa del genere?
Perché bisogna far posto alle miniere, alle attività di estrazione e di produzione di petrolio e gas.
Perché bisogna far spazio alla produzione agricola, in particolar modo quella legata alla coltivazione della soia, che verrà poi esportata in Europa, in Oriente e negli USA per sfamare gli animali che schiavizziamo e sfruttiamo negli allevamenti.
Perché bisogna allontanare le popolazioni indigene che vi vivono, che si oppongono al processo di deforestazione e dunque al “progresso economico” tanto ricercato dagli Stati (in questo caso, il Brasile di Bolsonaro).
Tutto ciò, oltre a causare un danno diretto alla vita che popola quell’area del mondo, non fa altro che peggiorare le già critiche condizioni climatiche del pianeta. La foresta pluviale dell’Amazzonia, infatti, “assorbe ogni anno 2,2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, il gas dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici: più dei 1,7-1,9 miliardi di tonnellate che gli alberi amazzonici morti restituiscono all’atmosfera. Però gli incendi e la sostituzione degli alberi con i campi di soia possono ribaltare il bilancio e trasformare il polmone malato del pianeta in una fonte di emissioni”.
Le nostre scelte alimentari, il nostro stile di vita, il sistema che supportiamo e “votiamo” ogni giorno: ecco cosa si nasconde dietro tutta questa distruzione. Non possiamo più girarci dall’altra parte, fingere di non essere responsabili, di non poterci opporre.
Se siamo in grado, nel nostro piccolo, di causare così tanta distruzione e sofferenza, siamo anche in grado di fermarla.

Nella foto (clicca qui) la città di San Paolo a mezzogiorno a causa del fumo e delle polveri provenienti dai roghi in Amazzonia a 3000 km di distanza.

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Immagine e testo tratti da    Deviance Project

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