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Il testo e del solito Eco
(scritto nel 1988, ricordiamolo)
Capitolo
COME NON SAPERE L’ORA
“L’orologio di cui sto leggendo la descrizione (Patek Philippe Calibro 89) è da tasca, doppia cassa in oro da diciotto carati e dotato di 33 funzioni.
La rivista che lo presenta non mette il prezzo, immagino per mancanza di spazio (però basterebbe segnarlo in miliardi anziché in lire).
Preso da frustrazione profonda, sono andato a comperarmi un Casio nuovo da 50.000 lire, così come tutti coloro che desiderano follemente una Ferrari per calmarsi vanno ad acquistare almeno una radiosveglia.
D’altra parte, per portare un orologio da tasca dovrei acquistare anche un panciotto intonato.
Però, mi dicevo, potrei tenerlo sul tavolo.
Passerei ore e ore sapendo il giorno del mese e delle settimana, il mese, l’anno, la decade e il secolo, l’anno del ciclo bisestile, minuti e secondo dell’ora legale, ora, minuti e secondi di un altro fuso orario a scelta, temperatura, ora siderale, fasi lunari, ora dell’alba e del tramonto, equazione del tempo, posizione del sole nello Zodiaco, per non dire di quanto potrei dilettarmi, rabbrividendo di infinito sulla rappresentazione completa e mobile della mappa stellare, o stoppando e rattrappando con i vari quadranti del cronometro e del segnatempo, decidendo quando arrestarmi per poco grazie alla sveglia incorporata.
Dimenticavo ancora: volendo potrei conoscere anche l’ora che fa.
Ma perché dovrei?
Se possedessi questa meraviglia sarei disinteressato a sapere che sono le dieci e dieci.
Spierei piuttosto la levata e il tramonto del sole (e potrei farlo anche in una camera oscura), mi informerei sulla temperatura, farei oroscopi, sognerei di giorno sul quadrante azzurro le stelle che potrei vedere di notte, ma la notte la passerei a meditare quanto ci separa dalla Pasqua.
Con un orologio così non è più necessario rendersi conto del tempo esterno, perché ci si dovrebbe occupare di esso per tutta la vita, e il tempo che esso racconta si trasformerebbe, da immagine immobile dell’eternità, in eternità in atto, ovvero il tempo sarebbe soltanto una fiabesca allucinazione prodotta da quello specchio magico.
Racconto queste cose perché da un po’ di tempo circolano riviste dedicate agli orologi da collezione, patinate a a colori, abbastanza care, e mi chiedo se la comperano solo lettori che le sfogliano come un libro di fate, o se si rivolgono a un pubblico di acquirenti, come talora sospetto.
Questo vorrebbe dire che, quanto più l’orologio meccanico, miracolo di un’esperienza centenaria, diventa inutile perché sostituito da orologini elettronici di poche migliaia di lire, tanto più nasce e si diffonde il desiderio di ostentare, guardare amorosamente, tesaurizzare come investimento, mirabolanti e perfette macchine del tempo.
E’ evidente che queste macchine non sono concepite per comunicare l’ora che batte.
L’abbondanza di funzioni e la loro elegante distribuzione su numerosi e simmetrici quadranti fa sì che, per sapere che sono le tre e venti di venerdì 24 maggio, occorre muovere a lungo gli occhi seguendo il moto di numerosissime lancette e annotandosi i risultati via via su un taccuino.
D’altra parte gli invidiosi elettronici giapponesi, ormai vergognosi della loro prisca praticità, arrivano oggi a promettere quadranti microscopici che forniscono pressione barometrica, altitudine, profondità marina, cronometro, countdown, termometro, oltre che, naturalmente, banca dati, tutti i fusi orari, otto sveglie, calcolatore convertitore di valuta e segnale orario.
Tutti questo orologi, come l’intera industria dell’informazione oggi, rischiano di non comunicare più nulla perché dicono troppo.
Ma dell’industria dell’informazione hanno un’altra caratteristica: non parlano più di nulla salvo che di se stessi e del loro funzionamento interno.
Il capolavoro è raggiunto da alcuni orologi per signora con lancette impercettibili, quadrante in marmo senza ore e minuti, e sagomato in modo da poter dire, al massimo, che siamo tra mezzogiorno e mezzanotte, forse dell’altro ieri.
Tanto (suggerisce implicitamente il designer), le signore a cui è destinato che altro hanno da fare, se non guardare una macchina che racconta la propria vanità?”
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La lettura di questo testo mi fa venire in mente un vecchio modo di dire (tratto da un passo di Orazio), leggermente da me modificato per l’occasione …
“unire il Futile al dilettevole” (o, se preferite, potremmo anche dire “unire l’INutile al dilettevole”).
Sia ben chiaro che mi levo tanto di cappello per la maestria di chi assembla manufatti del genere; trattandosi di un orologio meccanico, cioè privo di automatismi, è stupefacente notare la capacità di creare un oggetto così complicato, solo con la sapienza della meccanica.
Però è altrettanto chiaro che a scoraggiarmi dal solo pensiero dell’acquisto di un tale ‘accessorio’ non è certamente soltanto il prezzo.
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E voglio concludere (con un po’ di ironia, anche se non paragonabile a quella di Eco) ricordando un altro modo di dire che mi sta sovvenendo, tratto da un aforisma di Hermann Hesse :
dopotutto “anche un orologio fermo segna l’ora esatta.
Due volte al giorno …”
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