Vita: perché?


uno spaccato di vita descritto mirabilmente …

Emozioni: idee del cuore

Mi hanno fatto notare che spesso, i miei post, parlano di vita.

– Perché Dina, scrivi argomenti, citazioni o storie, sulla vita?-

Rispondo subito.

– Sapete, non ci avevo nemmeno fatto caso. Poi, curiosa di natura, sono andata a vedere. Cavolo. È proprio così.

Sono andata a rileggermi i vari titoli, dei miei racconti e/o pensieri.

Affacciamoci alla vita, Tutto riprende vita, Disegnare la vita, etc.

Ed allora, anche io, mi sono posta la medesima domanda.

Perché quando scrivo, il più delle volte, butto giù così…senza troppo riflettere. E se ho una buona musica di sottofondo( preferisco gli auricolari), per la quale ringrazio la mia amica Paola, della quale conservo gelosamente un suo pezzo suonato al pianoforte, le dita pigiano sui tasti, talmente velocemente che anche il correttore automatico, s’incasina. 

E più scrivo e maggiormente sembra che la mia anima, dia voce, a ciò che ho dentro.

Come quando, beatamente…

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L’Economia parla della Felicità ???


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Da  QU’EST-CE QUE LA RICHESSE ?
(Cos’è la ricchezza ?)

– 1999 – di Dominique Meda (filosofa e sociologa).

L’ECONOMIA PARLA DELLA FELICITA’?

“La felicità e il benessere sono concepiti in un’ottica fondamentale soggettiva: l’utilità non può mai essere altro che quella del singolo individuo e, come scrive lo specialista francese di contabilità generale, * il benessere può essere apprezzato soltanto soggettivamente, e si può dimostrare che è impossibile aggregare le preferenze individuali per ottenere la preferenza su scala nazionale. Pertanto il concetto di benessere nazionale non è fondato teoricamente.*
Questo è il problema di fondo.

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Un gran numero di beni – fra i quali, probabilmente, i più importanti – sono assolutamente collettivi, ossia utilizzabili da tutti, dall’intera società per il suo benessere e il suo progresso, senza che nessuno possa appropriarsene individualmente.
Soffermiamoci un istante sui rapporti fra PIL e benessere.

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Dopo molti anni gli economisti non sembrano d’accordo sul fatto che il PIL sia un indicatore di benessere: nel 1949, nei ‘Comptes de la nation’, François Perroux scriveva:
*E’ dunque alquanto contestabile che la grandezza più adatta a indicare il benessere di una popolazione sia il prodotto nazionale netto ai prezzi di mercato.
Per dedurne la misura desiderata sarebbe necessario
1) che fosse registrata la totalità dei beni e dei servizi di cui godono gli individui durante un dato periodo;
2) che lo sforzo compiuto per ottenerli fosse valutato esattamente;
3) che i prezzi esprimessero tutte le utilità marginali dei beni e dei servizi. Tutte condizioni che non sono soddisfatte.*

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Nel 1953, in un testo ciclostilato adottato in un corso dell’ENA (Scuola Nazionale di Amministrazione – come da noi… ;.) ndr) e intitolato ‘Reflexions sur la comptabilité nationale e le budgets nationaux’, Simon Nora scrive:
*Per misurare il benessere di una nazione, e benché questa misura sia molto discutibile, la grandezza da considerare è verosimilmente il prodotto nazionale netto ai prezzi di mercato. Il prodotto nazionale netto o lordo può servire da base per valutare il potenziale su cui una nazione può contare nell’eventualità di uno sforzo bellico o di ricostruzione (es: un terremoto ndr).*
Si noterà che i due autori si collocano in un’ottica finalizzata alla ricostruzione che è altresì utilitaristica.
[…]

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Senonché, dopo gli anni settanta, (*) in genere gli economisti (quelli liberi… ndr) che si occupano della questione rifiutano l’assimilazione del PIL a un criterio di benessere.
Rifiuto legato al fatto che, con l’aumento delle risorse materiali, la definizione di benessere è cambiata e non può più essere circoscritta a queste ultime”.

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3356

Ora, provate a far combaciare questo testo con le ‘narrazioni’ economiche, sociali, politiche che uno stuolo di cialtroni e incapaci elargiscono a un popolo in gran parte ignorante, e avrete l’esatta misura della distanza che c’è tra la significanza delle parole e dei termini, e il loro abuso… ‘intollerabile’.
Ma, se non ci si sveglia… hanno ragione ‘loro’ !
(citazione)

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(*) io aggiungo solo, a corredo di questo testo, di andare a riascoltare il famoso discorso (pre-assassinio) di Robert Kennedy del 18 marzo 1968 …
Il Pil è (come tante altre ‘invenzioni’ dell’Economia liberista moderna) una solenne presa per il ……

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ascoltiamo Albert


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“Il mondo che abbiamo creato è il prodotto del nostro pensiero e dunque non può cambiare se prima non modifichiamo il nostro modo di pensare.
Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato.”

“Una persona inizia a vivere quando impara a vivere al di fuori della prigione del suo ego.
Quando l’ego si mette da parte, si accede alla memoria del tutto.”

(Albert Einstein)

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( tratto dalla pagina FB di  Realtà, inganno e manipolazione )

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Democrazia e schiavitù … insieme ???


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Democrazia e schiavitù, un binomio oggi apparentemente impossibile anche solo da pensare …
apparentemente …
nella realtà c’è chi pensa che siano le 2 facce della stessa medaglia coniata dalla ‘zecca del capitalismo globalizzato’;
un paradosso che diviene realtà grazie all’azione di una esigua ma ricchissima e potente èlite di uomini di affari e delle loro banche e multinazionali.
Vediamo chi ci spiega questa malefica associazione

dall’Introduzione del libro del 2008

Economia canaglia
Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale

di Loretta Napoleoni

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“Gli anni novanta sono segnati dalla diffusione di un virus globale: la democrazia. Il batterio micidiale, una sorta di freedom bug, un baco della libertà, viene messo in circolazione dalla caduta dell’Unione Sovietica e nello spazio di un decennio il numero delle nazioni democratiche nel mondo cresce da 69 a 118. Milioni di persone, che per anni erano state vaccinate contro i rischi del virus democratico, festeggiano la libertà ritrovata nel momento in cui i sistemi di autoprotezione delle dittature si disintegrano. Tutti coloro che fino a quel momento erano stati tenuti al riparo dall’epidemia democratica di tipo occidentale vengono infettati.
Nel momento in cui il muro di Berlino crolla, un fiume di giovani dell’Est attraversa la cortina di ferro, fino a quel momento la linea di divisione simbolica tra il mondo libero e il totalitarismo. La gente in strada si abbraccia, balla e ride mentre una carovana infinita di Trabant, Lada e altre improbabili automobili di stampo sovietico si riversa sulle strade
occidentali.
Ma l’infezione non termina qui. Il contagio provocato dal baco della libertà si diffonde
subdolamente nel globo. Anche negli angoli più remoti. Dal Sudest asiatico all’America Latina, finanche alla Cina, lasciando dietro di sé la traccia indelebile del suo passaggio. E con la democrazia, si diffonde la schiavitù.
Entro la fine del decennio, quasi 27 milioni di persone vengono ridotte in schiavitù in molte parti del pianeta, perfino in alcuni paesi dell’Europa occidentale. Nei primi anni novanta, le schiave del sesso provenienti dai paesi dell’ex Blocco sovietico invadono i mercati occidentali.
Queste donne hanno alcune caratteristiche essenziali: sono belle, poco costose e, soprattutto, disperate. Ma il mercato del sesso è solo la punta dell’iceberg.
La globalizzazione favorisce lo sfruttamento del lavoro degli schiavi su scala industriale,
raggiungendo cifre e volumi del tutto nuovi, che superano persino quelli dell’epoca del mercato degli schiavi attraverso l’Atlantico. Pare sorprendente, o addirittura esagerato. Ma ci sono i numeri, le prove, le storie che ho incontrato in questi anni di ricerca. Dalle piantagioni di cacao dell’Africa occidentale ai frutteti della California, dalla fiorente industria illegale del pesce alle fabbriche di oggetti falsi, gli schiavi sono diventati parte integrante del capitalismo globale.
E questo è il paradosso.
La democrazia e la schiavitù non solo coesistono, ma sono tenute insieme da quella che gli economisti definiscono una forte correlazione diretta.
In altre parole, non solo i due fenomeni mostrano tendenze di sviluppo assolutamente simili, ma l’evoluzione dell’uno condiziona quella dell’altro. E gli anni novanta confermano quella tendenza apparentemente surreale che si era già manifestata negli anni cinquanta nel processo di decolonizzazione. Nel momento in cui gli stati coloniali conquistano l’indipendenza, il numero degli schiavi cresce mentre il loro prezzo si abbassa. Così oggi il prezzo di uno schiavo è circa un decimo di quello che era nella Roma antica e, non a caso, quella era un’epoca in cui il concetto di democrazia era praticamente inesistente. Per gli antichi romani gli schiavi erano un bene raro e una comodità preziosa da pagare a caro prezzo. Al contrario, oggi ce ne sono in grande quantità, il loro valore è minimo e vengono considerati semplicemente un «costo
obbligato per il business internazionale».
Eppure a noi, illuminati cittadini del «mondo democratico», associare democrazia e schiavitù pare semplicemente assurdo visto che continuiamo a coltivare l’illusione che l’esistenza della prima sia proprio la garanzia principale contro il ritorno della seconda. Il citatissimo esempio della Guerra civile americana, che la lettura consueta vuole combattuta per liberare il Sud dalla schiavitù, rafforza questo falso convincimento Chiunque infatti è in grado di verificare che la discriminazione più feroce dei bianchi nei confronti dei neri scoppiò negli stati del Sud proprio alla fine della guerra. Allo stesso modo oggi si tende a pensare che il fenomeno della schiavitù sia da associare allo sfruttamento delle nazioni ricche nei confronti delle nazioni povere, ma i
fatti dimostrano esattamente l’opposto. La maggior parte delle vittime è resa schiava, comprata e venduta, non da approfittatori stranieri ma dai propri connazionali. E questo insospettabile, perverso legame tra democrazia e schiavitù è la diretta conseguenza di quella che d’ora in poi chiamerò «economia canaglia.

[…]”

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immacolate concezioni … parte terza


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Allora completiamo (e qui trovate la seconda parte) la Trilogia di testi dell’ottimo (almeno lui) Odifreddi.
Oggi ci spiega cosa succede dove nasce il sole… cioè nel Sol Levante

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Da    C’ERA UNA VOLTA IL PARADOSSO

Capitolo:    APPLAUSI A UNA MANO SOLA

“Lao Tze (secolo VI a.C.) apre il Tao Tze Ching, primo classico del taoismo, con l’affermazione:
*Il Tao di cui si parla non è il vero Tao*.
E lo conclude dicendo: *Chi sa non parla, chi parla non sa*.
Naturalmente, ciò che sta in mezzo procede sullo stesso tono, e dichiara di passaggio: *La verità è paradossale*.
Con queste premesse, cercare di capire positivamente cosa sia il Tao è impossibile, essendo esso indecidibile e ineffabile.
Il che permette di identificarlo, a piacere, con l’Assoluto, la Natura, il Vuoto, il Cammino, la Via, eccetera.
Non stupisce, allora, che invece di trattati filosofici il taoismo abbia prodotto raccolte di aforismi e aneddoti, con l’intento di dimostrare con esempi ciò che non si può esprimere con le parole.

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La più nota di queste raccolte è certamente il Chuang Tzu, che prende il titolo dal nome del suo autore (369-286 a.C.)
A sua volta la più nota storiella del libro è questa:
*Una volta Chuang Tzu sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte, e ignara di essere Chuang Tzu.
Bruscamente si risvegliò, e si accorse con stupore di essere Chuang Tzu.

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Non seppe più allora se era Tzu che sognava i essere una farfalla, o una farfalla di essere Tzu.*
La morale, naturalmente, è che non si può distinguere la realtà dal sogno, e dunque neppure la verità dalla falsità.
Anzi, non si può distinguere proprio niente, come dichiara esplicitamente il titolo del capitolo da cui l’aneddoto è tratto: ‘L’uguaglianza di tutte le cose’.
Su queste premesse, il taoismo sviluppò un pensiero paradossale e anti-intellettuale che considerava gli opposti non contraddittori, come nella logica occidentale, ma complementari.

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Il Tao fu identificato con la loro combinazione, vista come metafora dell’incessante avvicendarsi delle stagioni e delle vite, e venne rappresentata col ‘t’ai-chi’ (trave maestra), simbolo dell’unione di yin e yang.
Anche in occidente non sono mancate scuole di pensiero che hanno accettato la complementarietà degli opposti: basti pensare a sofisti, dialettici e decostruzionisti.
Ma da noi il principio di non contraddizione non ha mai perduto la sua posizione dominante, soprattutto nel pensiero scientifico.
In Cina, invece, la complementarietà taoista ha segnato lo sviluppo del pensiero religioso e filosofico, innestandosi spesso anche su ceppi ad essa estranei.

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Il caso più eccellente di questa fecondazione lo si ebbe certamente col buddhismo, che fu esportato in Cina nel 520 dal monaco indiano Bodhidharma (470-534).
Naturalmente, viste le caratteristiche del buddhismo stesso, la confluenza col taoismo era da prevedere.
Anzi, i cinesi arrivarono addirittura a pensare che il buddhismo fosse una versione indiana del taoismo, ritornata finalmente in patria.
Effettivamente, molti aforismi e aneddoti buddhisti hanno un inconfondibile sapore taoista.

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Pensiamo, ad esempio, alla definizione di Po-Chang (720-814) dell’essenza de buddhismo:
*Mangiare quando si ha fame, dormire quando si ha sonno*.
Cosa paradossalmente più facile da dire che da fare, soprattutto nella nostra società.
O, più mitologicamente, ricordiamo la leggenda che la tradizione associa alla nascita stessa del buddhismo cinese.

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Un giorno al Buddha, sul Picco dell’Avvoltoio, fu offerto un fiore e richiesto di fare un sermone sulla legge.
Egli fece lentamente girare il gambo del fiore fra le dita, senza parlare.
Solo Kasyapa, il migliore degli studenti, capì e sorrise in silenzio.
Quel muto insegnamento fu da lui trasmesso a una serie di ventotto successivi patriarchi, l’ultimo dei quali fu appunto Bodhidharma.

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Arrivato al monastero di Shaolin, Bodidharma rimase seduto per nove anni di fronte a una roccia, lasciandovi un segno che si vede ancora oggi.
La nuova scuola cinese da lui fondata fu chiamata ‘Ch’an’ (meditazione), perché in origine si basava appunto sulla meditazione come unico mezzo per raggiungere l’illuminazione.
Poiché, però, non tutti possono o vogliono stare per anni seduti a meditare, la scuola assunse presto un carattere privato e elitario.

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Per ovviare all’inconveniente e rendere il Ch’an più accessibile, verso la fine del secolo IX fu inventata la tecnica del ‘koan’ (certificazione pubblica), che dall’esterno appare come una vera e propria insensatezza (e magari lo è per davvero nda).
Il suo scopo è di stimolare il raggiungimento dell’illuminazione presentando problemi paradossali che, non potendosi risolvere secondo la logica convenzionale, dovrebbero cortocircuitare il pensiero razionale.
Per avere almeno un’idea di cosa stiamo parlando, ecco alcuni famosi koan storici:
– Che suono fa un applauso a una mano sola?
– Che faccia avevi prima di essere concepito?
– Un cane ha la natura di Buddha?
– Se sei così libero, perché hai tutti questi impegni?
Rispondi a questa domanda!
Inutile dire che, se non ci si pensa, non si arriva alla risposta.
E se ci si pensa, nemmeno.
Se però si arriva ugualmente a una risposta, è sbagliata.
E chi dice che ha capito, non ha capito.
Insomma, non c’è via d’uscita, se non quella di accettare che ci sono domande senza risposta più lontano di qualunque altra cosa.
[…]

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Nel 1191 il Ch’an fu esportato dal monaco Eisai in Giappone, dove attecchì con nome di ‘zen’.
Paradossalmente, un pensiero che si ispirava all’insegnamento di un pacifista divenne la pratica ufficiale dei ‘samurai’, che avevano da poco conquistato il potere.
E la sua applicazione all’arte della guerra, chiamata ‘bushido’, costituì l’analogo orientale dell’altrettanto paradossale applicazione del cattolicesimo al militarismo occidentale, dalla cavalleria medioevale al fascismo europeo e sudamericano.

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Le scuole zen oggi più diffuse in Giappone sono la Rinzai e la Soto.
La prima conta due milioni di seguaci e favorisce l’illuminazione improvvisa ottenuta mediante lo studio dei koan e le botte.
La seconda, ovviamente più popolare, ha circa sei milioni di aderenti e favorisce invece l’illuminazione graduale raggiunta attraverso la pratica meditativa dello ‘za-zen’ (zen seduto).
In Cina, invece, il Ch’an prosperò fino alla dinastia Ming.
In seguito le varie scuole buddhiste stemperarono le loro diversità e confluirono nella scuola della Terra Pura, che limita la pratica alla ossessiva ripetizione del nome di Amitabha (O-mi-to-fo).
Il Ch’an si dissolse così in una vuota ritualità popolare, analoga ai rosari e alla litanie cristiane, e oggi è praticamente scomparso.”

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Ed ecco concluso il breve viaggio tra le antropologie culturali.
Mi auguro che ciò sia servito a far comprendere che, quello che a ‘noi’ sembra strano e/o ridicolo, ad altri da noi, sono ‘insegnamenti’ che influiscono, poi, sugli stili di vita e i comportamenti.
Detto che non è mia intenzione dare giudizi o fare classifiche su cosa è meglio o peggio, mi limito a constatare che l’imperialismo culturale (e non solo) che l’occidente (USA) sta mettendo in atto da mezzo secolo almeno, produrrà sempre più problemi all’umanità, in due sensi:
A) la creazione di ulteriori alienati, nel caso accettino il modello occidentale.
B) ulteriori guerre e fondamentalismi, nel caso non accettino il ‘nostro’ modello.
E saran ‘cavoli amari’ (nostri), perché le loro ‘radici’ a noi sono perlopiù sconosciute, e di conseguenza anche le loro azioni e reazioni …

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