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Tratto da SENZA VERGOGNA
(2010) di Marco Belpoliti
Capitolo: TOKYO
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La parola ‘hikikomori‘ significa: ‘isolarsi, chiudersi, ritirarsi’.
Si tratta di una volontaria reclusione.
Secondo gli psicologi che hanno studiato il fenomeno, la vergogna è ciò che porta i giovani a ritirarsi nelle proprie stanze, da un lato, e induce gli adulti a gettarsi totalmente nel lavoro.
E mentre il giudizio verso il lavoro intensivo dei giapponesi è positivo, quello verso l’hikikomori è negativo, una malattia.
In un libro famoso, IL CRISANTEMO E LA SPADA (1946), commissionato dal governo americano durante la Seconda guerra mondiale, e dedicato alla cultura giapponese, l’antropologa Ruth Benedict distingue tra due tipi di culture: quella fondata sul senso di colpa e quella invece fondata sulla vergogna.
La studiosa sostiene che i giapponesi pongano l’accento sull’importanza del senso di vergogna, mentre la cultura della colpa è tipica dei paesi occidentali, degli Stati Uniti in particolare, e presuppone modelli etici assoluti e un elevato sviluppo delle coscienze individuali; al contrario, la cultura della vergogna presuppone l’accento posto sulla sanzione esterna.
*L’insuccesso nel conformarsi alle esplicite regole di buona condotta*, scrive la Benedict, oppure l’incapacità di adempiere i propri obblighi o di prevedere le eventuali conseguenze di un dato comportamento, rappresentano per loro una vergogna (haji).
La vergogna, espressa dal termine haji, sarebbe per i giapponesi alla radice della virtù stessa, così che un individuo sensibile alla vergogna è anche in gradi di mettere in atto tutte le regole della buon condotta ‘un uomo che conosce la vergogna’ è tradotto con l’espressione ‘uomo virtuoso’.
La vergogna come fondamento dei valori morali di un intero paese?
Ma cosa c’entra questo con gli hikikimori, coi ragazzi che si segregano?
Per capire come la vergogna possa diventare il fondamento di un’intera cultura, con i suoi aspetti negativi, ma anche positivi, bisogna descrivere il sistema dei principali valori della cultura giapponese, conoscere le sue parole chiave.
Il primo di questi termini, decisivo anche per spiegare il fenomeno hikikimori, è ‘amae‘.
La sua traduzione approssimativa è: ‘dipendere dalla benevolenza degli altri’. Sull’amae si fonda l’intera struttura psicologica dei giapponesi, dato che riguarda la relazione dei bambini con i genitori da cui dipendono, di giovani che si relazionano con gli anziani, dai nonni che dipendono dai nipoti, e molte altre relazioni parentali e sociali.
Lo psichiatra giapponese Takeo Doi, che ha messo a fuoco la dipendenza psicologica nella cultura del suo paese, sostiene che la parola amae ha la medesima radice di ‘amai‘, che significa dolcezza, e riguarda la relazione tra la madre e il bambino, ma anche tra due adulti.
Il termine ‘amae‘ è collegato ad altro aspetti della mentalità giapponese su cui Ruth Benedict si sofferma, in particolare quello espresso dalla parola ‘giri’, che indica il dovere sociale; gli altri termini sono: ‘enryo‘ (riservatezza), ‘tsumi‘ (peccato), e naturalmente ‘haji‘ (vergogna).
Si tratta di valori che si dispongono spazialmente nella sfera vitale degli individui: con i parenti non è necessaria la riservatezza, perché appartengono alla cerchia interna, mentre ‘giri‘ riguarda la sfera più esterna, in cui la riservatezza è indispensabile.
Ma ci sono anche situazioni in cui ‘giri‘ riguarda la sfera interna, in opposizione al mondo esterno.
Claude Lévi-Strauss (famoso antropologi ndr) ha notato a proposito del pensiero giapponese che è centripeto, mentre quello occidentale appare centrifugo. Fondandosi sui gesti manuali di artigiani e cuochi, sul rapporto che i giapponesi intrattengono con lo spazio della propria casa.
Lévi-Strauss ha scritto che in questo popolo prevale un centro interno (‘uchi‘), quello della dimora *verso il quale si aspira sempre a tornare* per quanto la vita degli abitanti del paese sia sempre dominata dal senso del transitorio. […]
Il libro di Takeo Doi ci permette di spiegare un altro aspetto della mentalità giapponese che non è facile comprendere per gli occidentali: l’ambiguità.
La parola è ‘aimae‘, termine che indica vari aspetti del comportamento, si può tradurre all’incirca con: indistinto, oscuro, equivoco, incerto, dubbio, ambiguo, poco chiaro, oscuro, equivoco, incerto, vago, indefinito, fosco, duplice, a doppio taglio.
Gli antropologi sostengono che questo aspetto della cultura giapponese, la grande tolleranza verso l’ambiguità, appartenga a una serie di fattori climatici e geografici, per cui i giapponesi sono stato costretti, per l’aspetto montuoso del territorio e per la situazione insulare, a coltivare una ‘cultura dell’unanimità’: la paura di essere esclusi dal gruppo.
Tutto ciò ha deviato le istanze conflittuali in una zona che è appunto quella dell’ambiguità relazionale.
Le persone si sacrificavano per il gruppo, ma il gruppo al tempo stesso le sosteneva; l’importante era non creare problemi all’armonia collettiva.
Il no esplicito non era ammesso, ma veniva deviato in altre forme e aspetti, da cui l’ambiguità nelle relazioni reciproche.
La vergogna nella cultura giapponese ha a che fare con lo spazio, con la fondamentale divisione tra dentro e fuori: la coppia ‘uchi-soto‘.
Siamo partiti dallo hikikimori, dove lo spazio (la reclusione volontaria nella stanza) assume un significato fondamentale: tuttavia per capire quella dislocazione spaziale bisogna passare per la coppia uchi-soto.
Dentro (‘uchi‘) è colui che appartiene al gruppo, fuori (‘soto‘) invece è chi ne è escluso.
La necessità di coltivare una forte unità emotiva, determina, come si è detto, la necessità di attenuare le critiche rivolte agli altri.
Ma non lo si fa apertamente, piuttosto in modo sfumato, ambiguamente.
Mentre noi occidentali valutiamo la franchezza un valore, i giapponesi coltivano, sulla base della coppia uchi-soto, l’ambiguità.
Per dire lo stato del fuori c’è un termine, ‘tanin‘, che significa: essere estraneo, in mezzo a persone con cui non si ha (a scuola, in fabbrica, in ufficio, in un negozio, in metropolitana) nessun legame profondo.
Nell’uchi si può provare vergogna senza essere biasimati, ci si può lasciare andare alla rabbia, tipica della vergogna, senza paura di essere respinti.
Nella casa, nello spazio interno, i genitori accettano persino la violenza del figlio hikikimori.
E qui torniamo al concetto di ‘amae‘, ovvero al rapporto simbiotico tra madre e bambino proprio della cultura giapponese.
Mentre nella cultura anglosassone, e in particolare in quella nordamericana, c’è la tendenza a non alimentare troppo le dipendenze del bambino dalla madre (almeno sin qui, perché ora le cose stanno cambiando) in quella giapponese avviene una sorta di protezione del bambino: è come si gli volessero risparmiare le durezze della vita adulta: dorme con i genitori, perché la solitudine della sua stanza è reputata una crudeltà sino all’età di dieci anni.
Il comportamento materno, spiegano gli psicologi giapponesi, è quello di completa dedizione: il figlio crescendo prova perciò, a sua volta, un sentimento di dedizione, di obbligo, verso la madre, dal momento che le è grato sia per la sua bontà senza riserve, sia per il sacrificio che si è assunta nell’allevarlo.
Tutto questo produce una forma di obbligo che poi varrà in tutte le relazioni sociali.
Questo si chiama ‘giri‘, sentimento su cui Ruth Benedict si è soffermta in ‘Il crisantemo e la spada’, per mostrare il culto della dipendenza dei giapponesi.”
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Se (come si usa dire) il mondo è ‘bello’ perché è vario, va da sé che il mondo (ed i suoi popoli e le loro ‘usanze’) dobbiamo ‘imparare’ a conoscerlo.
Ridere di tutto quello che è diverso dal nostro modo di pensare e agire, oppure, aspettarsi che tutto venga ‘omogeneizzato’ dal pensiero dominante, oggi ‘nordamericano USA’ (perché già i canadesi sono ‘diversi’) questo sì fa ridere (o, se preferite, piangere !!!).
Conosciuto il quale, poi ognuno deve sentirsi libero di farselo piacere o meno, prendendo le sue decisioni, ma perlomeno con cognizione di causa.
In caso contrario, entrano in gioco i pregiudizi e preconcetti, i campanili, le tifoserie, tutta quella serie di orpelli sub-culturali che ci fanno dire, spesso, delle abominevoli stronzate, del tipo: siamo i più creativi, abbiamo la cucina più buona del mono, ‘questo’ o ‘quello’ che tutto il mondo ci invidia (e come no …), vivendo con quel ‘provincialismo’ un po’ becero che è diretta conseguenza di mentalità chiuse, per paura di aprirsi e di sentirsi ‘inadeguati’.
In ogni caso, il Giappone sta cambiando, e in peggio, come del resto tutti gli altri paesi dl mondo.
Grazie Zio Sam !!!
(citazione)
Sorridendo (amaramente) mi vien da pensare che anche qui da noi abbiamo l’ ‘uchi-soto’, ‘dentro-fuori’ …
riguarda i comuni mortali ed i politici (con i loro amici di merende e non) …
ed il loro rapporto con le patrie galere …
i primi (se delinquono) stanno immancabilmente dentro, i secondi …
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