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Uomo … dove stai andando ???
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F I N E ???
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“Tutte le disgrazie dell’umanità non provengono dal fatto che gli uomini hanno trascurato di fare ciò che era necessario, ma dal fatto che essi fanno ciò che non lo è affatto.”
(Lao-Tze)
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( tratta dalla pagina FB di Realtà, inganno e manipolazione )
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[ tratta dalla pagina FB (quindi non vi si trova solo “fuffa” come qualcuno sostiene) di Partito per la Protezione del Senso Critico in Estinzione ]
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Necessita commento ???
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Cara Agnese,
Ti do del tu perché potresti essere mia figlia e perché come te sono un’insegnante, o per meglio dire un’insegnante in pensione.
Stamattina appena sveglia ti ho visto accanto al tuo consorte scendere dalla scaletta dell’aereo che ti ha portato negli States e ho subito pensato alle tante docenti di ruolo o no che devono presentarsi in classe, malgrado i tanti problemi della vita di ogni giorno.
Tu, Agnese, sei una docente come gli altri e, missioni all’estero o no di tuo marito, dovresti andare a scuola perché hai un lavoro da svolgere e per questo sei pagata.
Lascia perdere queste mondanità, credimi tutta bardata e lookata come una Kate Middlenton qualsiasi non hai credibilità e non sei un buon esempio per i tuoi alunni.
Incontrare persone famose e, presumo interessanti, sarà senza dubbio prestigioso per te, in quanto potrai aggiungere una nuova figurina al tuo album personale, ma non ne vale la pena.
Tutti ti avrebbe applaudito se questa mattina ti fossi presentata a scuola con i soliti jeans e le scarpe da tennis.
Ti auguro comunque un buon soggiorno.
Maria Grazia Galimberti
Un appunto: Kate e’ la moglie del futuro re d’Inghilterra, rappresenta la corona e …… usa gli aerei di linea
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Questi ultimi giorni hanno acuito in me alcune considerazioni di carattere generale ma maggiormente focalizzate sul mondo dei social che tutti noi (se leggete siete qui con me 😉 ) utilizziamo, più o meno consapevoli che i rapporti interpersonali instaurati tramite tastiere celino possibili mistificazioni, inganni, sotterfugi, mascheramenti …
per fortuna tali comportamenti non sono la normalità ma l’eccezione (per quanto sia possibile che percentualmente sia anche “importante”);
però il rischio rimane e si può incappare in interlocutori che mistificano se stessi e non solo tramite l’uso di nomi di fantasia o, come a volte succede, addirittura con maschi che si firmano e si spacciano per donne o viceversa;
conosco un “Pinco Pallo” di Roma (il vero nome non è questo … ma sapete … c’è la privacy) che so per certo che non si chiama Pinco Pallo e non è di Roma …
Da tutto ciò deriva la necessità di “ponderare” e “valutare” bene chi ci si trova davanti (in video 😉 ) tenendo sempre, in un angolo della mente, in funzione, un campanellino d’allarme;
Vi chiederete perché sto dicendo queste cose … semplicemente per introdurre un contributo di oggi
contributo che ci ricorda che in ogni uomo o donna esiste un “dentro” ed un “fuori”, un “essere” ed un “apparire” e che queste “essenze” (più o meno sviluppate nella direzione “positiva” piuttosto che nell’altra) sono fondamentali : molto più importante ESSERE che AVERE nella vita e dobbiamo constatare che l’essere è multiforme;
Da: AFORISMI SULLA SAGGEZZA DEL VIVERE
di Arthur Schopenhauer
Capitolo: DI QUELLO CHE UNO E’
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“Abbiamo constatato, per linee generali, come quello che uno è contribuisca alla sua felicità assai più di quanto egli ‘possieda’ o di quello che ‘rappresenta’. Ciò che conta è sempre quello che uno è e quindi quello che ha in se stesso: perché la sua individualità lo accompagna sempre e dovunque, e tutto ciò che egli sperimenta ne porta l’impronta.
In tutto e per tutto egli gode principalmente se stesso: questo vale per i godimenti fisici, ma ancor più per quelli spirituali.
E quindi assai indovinata l’espressione inglese ‘to enjoy one’s self”. Si dice ad esempio, ‘he enjoy himself at Paris’, quindi non ‘egli gode Parigi’, bensì ‘egli gode se stesso a Parigi’.
Ma se l’individualità è di natura scadente, tutti i godimenti sono come dei vini squisiti in una bocca cosparsa di fiele.
Per conseguenza, nel bene come nel male – a parte le disgrazie gravi – conta meno ciò che a un uomo nella vita capita e deve subire di come egli lo sente, quindi il tipo e il livello della sua sensibilità, sotto ogni riguardo.
Ciò che uno è in sé e ha in sé, in breve la sua personalità (una eh, non due o molteplici 🙂 ndr) e il suo valore, è l’unico agente diretto della sua felicità e del suo benessere.
Tutto il resto opera indirettamente, perciò anche il suo effetto può essere vanificato, mentre quello della personalità non lo sarà mai.
Proprio per questa ragione l’invidia nei confronti di doti personali è la più invincibile, come pure la più accuratamente dissimulata.
Inoltre, soltanto la qualità della coscienza è ciò che dura e persiste, e l’individualità agisce di continuo e senza soste, pressoché in ogni istante; tutto il resto invece agisce solo saltuariamente, in modo fugace, ed è inoltre soggetto a cambiamenti e metamorfosi; perciò Aristotele dice: *Nam natura perennis est, non opes* (la natura è fidata, non le ricchezze).
Da ciò dipende che noi sopportiamo con più compostezza una disgrazia capitataci per ragioni del tutto esterne piuttosto che una dovuta a nostra colpa; perché il destino può cambiare, ma la nostra natura mai.
Pertanto i beni soggettivi come un carattere nobile, una mente capace, un temperamento gioviale, un animo sereno, un corpo sano e ben fatto, quindi in assoluto ‘mens sana in corpore sano’ (cfr. Giovenale – Satire X,356) sono le cose primarie, le più importanti per la nostra felicità; dovremmo quindi badare assai più al loro sviluppo e alla loro conservazione anziché al possesso di beni materiali e di onori provenienti dall’esterno.
[…]
Ma per quanto la salute contribuisca alla serenità, così essenziale per renderci felici, la serenità non dipende unicamente dalla salute.
Infatti anche in condizioni di perfetta salute si può avere un temperamento malinconico, uno stato d’animo incline alla tetraggine.
La ragione elementare di questo sta indubbiamente nell’originaria e quindi immutabile costituzione dll’organismo e pecisamente, nella maggioranza dei casi, nel rapporto più o meno normale della sensibilità con l’eccitabilità e il sistema nervoso che presiede alla funzione riproduttiva.
Una anomala preponderanza della sensibilità comporterà un umore instabile con periodi di allegria esagerata e una predominante malinconia.
Perché anche il genio è condizionato da un eccesso di energia nervosa, dunque di sensibilità, ha perfettamente ragione Aristotele quando osserva che tutti gli uomini eccellenti o superiori sono malinconici.
Senza dubbio è questo il passo che Cicerone aveva presente nel suo giudizio, spesso citato: Aristoteles ait, omnes ingeniosos melancholicos esse (Aristotele dice che tutti gli uomini geniali sono malinconici).
La grande, congenita diversità dell’umore fondamentale che qui stiamo considerando è stata raffigurata, con grazia fiabesca, da William Shakespeare:
Nature has fram’d strange fellows in her time:
Some that will evermore peep through their eyes,
And laugh, like parrots, at a bag-piper;
And others of such vinegar aspect,
That they’ll not show their teeth in way of smile,
Though Nestor swear the jest be laughable.
(La natura ha prodotto, in certi giorni, esseri curiosi:
alcuni che guardano sempre divertiti coi loro occhietti,
e ridono come pappagalli a un suonatore di cornamusa;
e altri di aspetto acido
che non scoprono i loro denti in un sorriso
neppure se Nestore in persona giurasse che lo scherzo merita il riso)
– Il Mercante di Venezia, sc. I – “
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Dialettica …
Dal greco διαλεκτικὴ (τέχνη), propr. «arte dialogica».
In senso generico significa l’arte del dialogare, del discutere, intesa come tecnica e abilità di presentare gli argomenti adatti a dimostrare un assunto, a persuadere un interlocutore, a far trionfare il proprio punto di vista su quello dell’antagonista.
In senso più specifico, il termine e il concetto di διαλεκτικὴ τέχνη risale al sec. 5° a.C., a quell’ambiente socratico in cui il metodo del κατὰ βραχὺ διαλέγεσϑαι, cioè del «discutere per brevi domande e risposte», fu contrapposto al sistema sofistico del µακρὸς λόγος cioè del «lungo discorso», con cui l’oratore, adoperando ininterrottamente la sua forza di persuasione, mirava a convincere chi ascoltava.
(da Treccani.it)
Parliamo di qualcosa di prettamente “umano”, sconosciuto ed inusuale tra gli animali dove il “convincere” gli altri è perseguito normalmente mediante l’uso della forza;
parliamo altresì di qualcosa al di fuori della portata di tutti che necessita della fattiva collaborazione di altre componenti quali la conoscenza, l’attitudine, una almeno minima base culturale ed oratoria, l’abilità e così via;
ma perché si deve “convincere” gli altri ? I motivi sono ben spiegati nella descrizione su citata ma la correttezza e la bontà di tali motivi non è sempre la medesima, ovviamente; possono essere più o meno leciti, trasparenti, nobili;
Il contributo odierno tratto dalle pagine di una nostra vecchia conoscenza è un gran bell’esempio di “dialettica ai massimi livelli” che, oltre a far riflettere sull’argomento trattato, ci fornisce una utile pietra di paragone essendo un sublime modo di esprimere il proprio pensiero :
ad argomento si risponde argomentando, senza pretendere di avere la “ragione” a prescindere oppure per chissà quale meriti acquisiti. Si può sempre imparare qualcosa, quando l’interlocutore e “all’altezza” del ragionamento sul quale si discute;
Tratto da:
CARO PAPA TI SCRIVO
di Piergiorgio Odifreddi
Capitolo
UNA REALTA’ MOLTE FINZIONI
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“Il Credo costituisce una ben precisa dichiarazione di fede, i cui dettagli separano coloro che la professano, oltre che dai citati unitari, binatari, anche dagli ariani e adozionisti, dagli gnostici e dai manichei, dai catari e dagli albigesi, e così via.
Noi naturalmente non arriveremo a discutere di questi dettagli, perché le nostre strade divergeranno ben prima.
Ma, forse, non così presto come ci si potrebbe aspettare: anche un ateo dichiarato può infatti ritrovarsi, pur mantenendo le proprie convinzioni, a percorrere un buon tratto di strada comune con Lei.
A cominciare dall’analisi logica della parola “credere”, che ovviamente costituisce il cardine di una professione di fede che viene appunto chiamata Credo.
L’intero suo libro (Introduzione al Cristianesimo ndr) può essere letto come un tentativo di argomentare che le credenze nel Credo sono, allo stesso tempo, giustificate razionalmente e vere fattualmente.
Soffermiamoci anzitutto su questa concezione “trinitaria” della fede, che unisce fra loro credenza, giustificazione e verità.
Naturalmente, non ci sarebbe bisogno di argomentare nulla se le credenze fossero sempre giustificate e vere.
Sappiamo invece che non è affatto così, perché i tre aspetti hanno a che fare con tre realtà mutuamente distinte fra loro: la verità con il mondo, la giustificabilità con la logica e la credenza con la coscienza.
Ed esse si possono combinare in otto modi possibili, tutti realizzabili e qualcuno sorprendente.
L’osservazione più ovvia è che le credenze non sono necessariamente né giustificate, né vere.
In linea di principio, infatti, una credenza è vera solo se descrive uno stato di cose, ed è giustificata solo se ammette motivazioni razionali.
E le superstizioni, tanto per fare un esempio, sono credenze spesso false, e mai giustificate: se no, non sarebbero superstizioni. (Lo stesso si potrebbe dire della fiducia che noi accordiamo a qualcuno o a qualcosa, senza poi verificare la veridicità, nei fatti, sia della persona che della cosa ndr).
Meno ovvia è invece l’osservazione che ci possono essere credenze giustificate e vere, che ciò nonostante non forniscono conoscenza.
E’ infatti possibile che una giustificazione corretta porti a una verità per motivi sbagliati, provocando situazioni che si possono descrivere come “aver ragione pur avendo torto”, o “aver torto pur avendo ragione”, a seconda che si ponga l’accento sulla verità, o sulla giustificazione.
In Logica, questa situazione è conosciuta come “paradosso di Gettier”, dal nome del filosofo Edmund Gettier che la discusse in un articolo del 1963 intitolato “La credenza giustificata e vera è conoscenza?”
Ma già Platone aveva notato, nel TEETETO, che un giudice può credere all’innocenza di un imputato innocente sulla base di una difesa fatta da un avvocato così bravo che sarebbe riuscito a convincere il giudice dell’innocenza anche di un imputato colpevole.
Con un esempio ancora più semplice, chiunque può credere alle tre del pomeriggio che sono le tre, sulla base di un orologio che in genere è affidabile, ma che in quel momento è per caso fermo alle tre.
Queste situazioni sono però, appunto paradossali.
Di norma, le credenze giustificate e vere forniscono invece conoscenza, e per questo è così importante cercarle e trovarle.
Ovviamente, l’ambito in cui le si trovano più copiosamente è la matematica, a causa del carattere deduttivo e necessario del suo metodo logico.
Nella scienza, invece, le credenze sono sempre giustificate, sulla base dell’osservazione, ma possono anche essere false, a causa del carattere solo induttivo e probabilistico del metodo scientifico.
[…]
*La paroletta “credo” ci suggerisce che l’uomo non considera il vedere, l’udire e il toccare come la totalità delle cose che lo riguardano, che non ritiene fissati i limiti del suo mondo solo da quanto può vedere e toccare, ma cerca una seconda forma di accesso alla realtà, forma alla quale dà appunto il nome di fede, trovando addirittura in essa l’apertura più decisiva della sua visuale mondana.* (papa Ratzinger).
La perplessità, se non lo sconcerto, derivano dal fatto che questa definizione sembra restringere la credenza religiosa, e per Lei addirittura la credenza “tout court”, a quelle che si potrebbero chiamare “percezioni extrasensoriali” o “esperienze paranormali”.
Il che, da un lato, potrà anche essere necessario, quando si ha a che fare con un ambito che non a caso si chiama “l’altro mondo”, o “l’aldilà”.
Ma, dall’altro lato, è sicuramente un motivo sufficiente per far suonare sospetto l’intero discorso a certe orecchie, comprese le mie.
Dire poi, come Lei continua, che la fede *designa l’opzione che ciò che non può essere visto, quello che non può assolutamente entrare nel nostro raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma anzi è l’autentica realtà* (ibid.), è estremamente rischioso.
Si configura infatti come un’esplicita negazione del principio di realtà: negazione che è caratteristica di quella malattia psichiatrica che, nel 1845 Ernst von Feuchtersleben definì come “psicosi”. […]
Lungi da me l’accettare acriticamente le teorie, o anche solo i detti o i termini, della psicoanalisi e della psichiatria.
Rimane però il rischio che, quando ci si imbarca dalla terraferma della tautologica “realtà reale”, e si parte per navigare verso i lidi ignoti dell’ossimorica “realtà virtuale”, nella migliore delle ipotesi si finisca per incagliarsi sulle secche del “fantasy”, e nella peggiore per naufragare sugli scogli della metafisica.
Di nuovo, non stupisce che Jorge Luis Borges abbia argutamente sentenziato, a sua volta che “la teologia è un ramo della letteratura fantastica”.
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