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Ecco la seconda parte del testo che ho postato ieri (e che trovate qui) per concludere il discorso iniziato;
riconosco che è un testo molto difficile e di non facile lettura ma ogni tanto è giusto anche mettersi alla prova;
è comunque una espressione di cultura sopraffina, probabilmente non accessibile a tutti, che se anche rappresenta una sfida di comprensione, è una sfida che vale la pena raccogliere ed affrontare …
“Riprendendo l’analogia con gli scacchi, Hardy trova che la bellezza dei motivi matematici, come la dimostrazione euclidea dell’esistenza di un’infinità di numeri primi attraverso una ‘reductio ad absurdum’, sorpassi quella di qualsiasi problema o di partita di scacchi.
La differenza sta nella ‘serietà’, nell’interesse per la coerenza e nell’applicazione finale – anche se quest’ultima è un bonus contingente, un po’ sospetto per un matematico puro.
Ciononostante, è la bellezza assoluta di una rappresentazione o configurazione mentale, ossia la qualità estetica del modello, a essere fondamentale.
Coloro che sono incapaci di partecipare a questo riconoscimento e alla delizia che comunica sono privi ‘di orecchio’. […]
Il problema è che le tante testimonianze autorevoli non distinguono tra creazione e invenzione.
Quando parlano informalmente, i matematici situano a volte la creatività al di sopra dell’inventiva.
Ma per quanto ne sappia, si tratta più di una distinzione impressionistica che definitoria.
Questo uso ‘ad hoc’ nasce proprio dall’incertezza espistemologica e dalla controversia sui fondamenti cui ho già accennato.
Le operazioni matematiche, soprattutto dopo il calcolo infinitesimale e le geometrie non-euclidee, si occupano forse dell’architettura dell’immaginario, di quelle che chiamerei ‘finzioni di verità’?
Generano forse illusioni arbitrarie, anche se rigorosamente deduttive?
O sono invece riflessioni, descrizioni, benché molto raffinate, astratte e teorizzate, del mondo ‘là fuori’?
Sotto quali molteplici aspetti sono ‘reali’ i numeri reali?
I numeri cardinali transfiniti aspettavano di essere scoperti come le isole o le galassie negli spazi inesplorati?
Soltanto un qualche accordo su questo tema immensamente complicato potrebbe produrre degli usi dei concetti di creazione e di invenzione di una certa sostanza.
La meraviglia persino per i matematici esenti da preoccupazioni matematiche, sta nelle modulazioni, spesso del tutto inaspettate, nel passaggio dal gioco mentale, dall’allegramente ‘inutile’, alla sua applicazione conseguente.
Attraverso la teoria della relatività, il calcolo tensoriale di Levi-Civita (matematico e fisico ndr), una stradina secondaria dell’algebra che rimaneva, per così dire, in una oscurità irreprensibile, doveva portare direttamente agli incubi e ai benefici dell’energia nucleare.
Se la matematica pura sorge veramente da intuizioni subconscie – già profondamente strutturate come gli schemi grammaticali nella teoria generativo-trasformazionale del linguaggio (cfr. Noam Chomsky)? -, se l’operazione algebrica nasce dalla trama completamente interiorizzata di modelli, come può, in così tanti punti, intrecciarsi con le forme materiali del mondo e corrispondere ad esse?
Com’è possibile che delle cartografie immaginarie diventino l’atlante del quotidiano?
La nozione di scoperta illumina forse questa coincidenza apparentemente paradossale (Leibniz si appellerebbe a un’ ‘armonia prestabilita’) ?
E possiamo forse, pur soltanto dall’esterno, avvicinarci di più all’insistenza dei matematici stessi sugli ideali estetici del loro mestiere, sul suo parallelo primordiale con la poesia?
Le demarcazioni, sempre fluide, sempre interattive e negoziabili, tra la matematica pura e la matematica applicata, suggeriscono trasposizioni nel campo letterario.
La maggior parte della letterature è ‘applicata’. Nasce dall’occasione, tratta dell’occasione.
Narra, esamina, classifica, orna, satirizza, ricorda ciò che è dato, l’esserci (Da-sein) del nostro contesto esistenziale, cioè il mondo, e si sforza di conferirgli forme intellegibili.
Persino quando la finzione è più esplicita, nel ‘romance’, nell’evocazione del sovrannaturale, nei collage dei surrealisti, la letteratura rimane per essenza realistica.
Un centauro è un corpo umano incollato sul collo di un cavallo.
Questo realismo onnipresente, così profondamente trincerato, come Aristotele aveva capito in opposizione a Platone, nel verbo ‘è’, in ogni uso del predicato, è analogo a quello della matematica applicata.
Anche quest’ultima calibra, cataloga, formalizza in modo intelleggibile e mette in moto la materia del mondo, che sia nella costruzione di una piramide o nel lancio di un razzo interstellare.
Abbiamo visto che i mezzi della produzione letteraria sono combinatori.
Gettoni lessicali, grammaticali e semantici ereditati vengono combinati e ricombinati in sequenze di espressione e di esecuzione.
Nell’arrangiamento combinatorio le libertà sono vaste, ma non illimitate. I limiti della significazione sono soggetti a costrizioni assiomatiche, benché queste possano essere allargate dalle innovazioni.
L’enunciato performativo vuole essere capito a un certo livello (questo spiega la banalità inerente di tanta scrittura surrealistica e automatica).
Come nella matematica applicata ci sono dei postulati e degli algoritmi convenzionali – le forme metriche, per esempio, o i generi identificabili come l’epica in versi o la finzione in prosa.
La matematica applicata cataloga e alimenta la praxis umana.
Anche la letteratura. Le mappe della consapevolezza che essa disegna e la sua ‘imitatio’ della condizione umana sono attive.
C’è un ‘eros’ nuovo dopo Dante, una politica più approfondita delle relazioni umane dopo Shakespeare; la topografia della guerra è cambiata dopo Tolstoj.”
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