Diagnosi del nostro “presente”


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La comunicazione è nata e si evoluta a braccetto con l’Uomo, ha avuto inizi archeologici, ha avuto momenti bui e poi di grande splendore;
ha avuto periodi in cui era prevalentemente “orale” e/o pittorica (rupestre) per poi affiancare a queste una comunicazione “scritta” (dopo l’invenzione della stampa);

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la modernità ha stravolto i canoni consolidati dal tempo sfociando in una vera comunicazione alternativa con l’avvento di tecnologie sempre più incredibili;
sembrerebbe una evoluzione del tutto normale ma non è esattamente così : dall’inizio la comunicazione è andata di pari passo con la socializzazione ma negli ultimi decenni, con l’esplosione tecnologica, la comunicazione ha sempre maggiormente allontanato e diviso gli uomini, fino a giungere alla loro alienazione; sembra un controsenso eppure è così.

Con l’esplosione dei mezzi di comunicazione che l’uomo socializzi sempre meno e si isoli sempre più è qualcosa di apparentemente incredibile ed inspiegabile; ricordiamoci di quanti non conoscono e non si interessino neppure del proprio vicino di casa;

la comunicazione è diventata sempre più difficile ed una conseguenza, sotto gli occhi di tutti, di ciò è rappresentata dalla cacofonia di voci che via etere entrano nelle case : quotidiani e molteplici dibattiti (spesso troppo simili tra loro) dove si discute del nulla più o meno cosmico, dove si è perso il vero senso delle parole …

la cosa peggiore (che potete autonomamente constatare come vera) è che in conseguenza dell’imbarbarimento del linguaggio, di un suo uso scorretto (ad esempio nella pubblicità e nella politica) vengono posti in essere comportamenti, effettuate scelte, prese decisioni che stanno portando il mondo alla rovina.

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Vi ho postato ieri una prima parte di uno scritto tratto dal libro di George Steiner

GRAMMATICHE DELLA CREAZIONE

ed ora vi propongo la seconda parte che vi preannuncio forse un po’ più “difficile” della prima e dove si affronta la relazione tra linguaggio e grammatica (proprio quella di carattere scolastico);

Eccovi la SECONDA PARTE:

“Esaminiamo brevemente l’impatto di questa situazione ottenebrata sulla grammatica.
Con grammatica intendo l’organizzazione articolata della percezione, della riflessione e dell’esperienza, i percorsi nervosi della consapevolezza quando comunica con sé stessa e con gli altri.
Secondo la mia intuizione (si tratta naturalmente di tematiche quasi puramente congetturali) il tempo futuro è apparso relativamente tardi nel linguaggio umano.
Può darsi che si sia sviluppato soltanto verso la fine dell’era glaciale, assieme alla concezione dell’avvenire implicita nella costituzione di riserve di cibo, nella fabbricazione e nella conservazione di utensili per un uso non solo immediato, e nella scoperta molto graduale dell’allevamento e dell’agricoltura.
In qualche registro metalinguistico o prelinguistico, sembra che gli animali abbiano la cognizione del presente e, si suppone, una specie di memoria.

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Il tempo futuro, la capacità di discutere fatti che potrebbero succedere il giorno dopo il proprio funerale o fra un milione di anni nello spazio interstellare sembrano caratteristiche specifiche dell’Homo Sapiens.
Lo stesso vale per il congiuntivo e per i modi ‘controfattuali’ che sono anch’essi collegati, in un certo senso, ai tempi futuri.
Soltanto l’uomo, per quanto possiamo concepire, dispone dei mezzi per modificare il proprio mondo attraverso le subordinate ipotetiche, generando espressione come *Se Cesare non si fosse recato al Campidoglio quel giorno*.
Mi sembra che questa ‘grammatologia’ immaginaria, formalmente incommensurabile, dei futuri verbali, dei congiuntivi, degli ottativi abbia svolto un ruolo indispensabile, ieri come oggi, per la sopravvivenza e per l’evoluzione ‘dell’animale linguistico’ di fronte allo scandalo incomprensibile della morte dell’individuo.
In un senso ben reale, ogni uso del futuro del verbo essere è una negazione, anche se soltanto parziale, della mortalità.
E ogni subordinata ipotetica è un rifiuto dell’inevitabilità brutale, del dispotismo dei fatti.
I ‘farò’, i ‘sarò’, i ‘se’, nel loro gravitare in campi intricati di forza semantica intorno a un centro o nucleo nascosto di potenzialità, sono le password verso la speranza.

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La speranza e la paura sono finzioni supreme messe in atto dalla sintassi.
Sono inseparabili l’una dall’altra e dalla grammatica. La speranza include una paura della non realizzazione. La paura contiene un seme di speranza, il presentimento della vittoria.
E’ lo statuto attuale della speranza a essere problematico. Salvo a un livello banale ed effimero, essa costituisce sempre un’inferenza trascendentale. Si basa su presunzione teologiche e metafisiche, nel senso stretto del termine che suggerisce un investimento forse ingiustificato, una specie di speculazione ‘sui futures’, nel linguaggio della Borsa.
‘Sperare’ è un atto linguistico che comunica verso l’interno e verso l’esterno, che ‘presume’ un ascoltatore, fosse anche il soggetto stesso. […]
La rassicurazione metafisica si fonda su un’organizzazione razionale del mondo. Descartes (Cartesio ndr) deve scommettere sulla supposizione che i nostri sensi e il nostro intelletto non siano giocattoli nelle mani di un illusionista perverso. Tuttavia, la base più importante di questa rassicurazione è una moralità della giustizia distributiva. La speranza sarebbe priva di senso in un ordine totalmente irrazionale caratterizzato da un’etica arbitraria e assurda.
La speranza, intesa come forza strutturante della psiche e del comportamento, opera soltanto a un livello banale quando la ricompensa e il castigo sono determinati da una lotteria (le speranze dei giocatori di roulette appartengono precisamente a questo ordine vacuo). […]
L’edificio filosofico della speranza è quello della razionalità cartesiana (dove, con suprema sottigliezza, il teologico scorre verso il metafisico e lo scientifico, come la sabbia in una clessidra).

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E’ quello dell’ottimismo di Leibniz e, in un modo eminente, della morale kantiana.
Una pulsazione condivisa di progresso, di migliorismo, anima l’impresa filosofica ed etica dell’inizio del Seicento fino al positivismo di Auguste Comte. La corrente spirituale dominante fa della speranza non soltanto il motore dell’azione politica, sociale e scientifica, ma uno stato d’animo ragionevole.
Le rivoluzioni europee, gli sforzi per instaurare la giustizia sociale e il benessere materiale, sono cristallizzazioni di un futuro auspicato, avventi razionali del domani.
Dal giudaismo mosaico e profetico sono cresciuti due rami o ‘eresie’ principali. Il primo è il cristianesimo, con la sua promessa del regno venturo di Dio, del risarcimento delle sofferenze ingiuste, di un giudizio universale, e di una eternità di amore grazie al Figlio.
Il secondo ramo, anch’esso giudaico per quanto riguarda i suoi teorici e primi fautori, è quello del socialismo utopico, e in particolare del marxismo.
Qui, il ricorso alla trascendenza si fa immanente, il regno della giustizia e dell’uguaglianza, della pace e della prosperità, è annunciato per questo mondo. Con la voce di Amos, l’idealismo socialista e il comunismo marxista-leninista lanciano l’anatema contro la ricchezza egoistica, l’oppressione sociale e la menomazione di innumerevoli vite comuni da parte dell’avidità insensata. […]
Il ‘Verbo’ che era in ‘principio’, per i presocratici come per San Giovanni, includeva un’eternità generativa e dinamica della quale poteva scaturire il tempo, un indicativo presente del verbo ‘essere’ gravido (in un senso quasi materiale) di forme verbali future.

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I tempi futuri sono l’espressioni idiomatica del messianico. Se ne rimuoviamo l’anticipazione che li anima e l’imperativo luminoso dell’attesa, questi tempi sono bloccati: la ‘speranza di vita’ non è più una proiezione utopica-messianica ma una statistica attuariale.
Queste pressioni sull’incipienza del significato della comunicazione nel subconscio individuale e collettivo, sui mezzi del discorso strutturato, si esercitano gradualmente.
Salvo nei maestri della poesia e del pensiero speculativo.
Il linguaggio è consevatore e refrattario alle intuizioni nascenti (questo spiega la necessità di ricorrere a codici matematici e logico formali nella rapida evoluzione delle scienze).
Tuttavia, proprio come i movimenti tettonici sotterranei e quasi impercettibili separano e riplasmano i continenti, così le forze emanate dall’eclissi del messianico troveranno un’espressione manifesta.
Grammatiche del nichilismo lampeggiano, per così dire all’orizzonte.
I poeti lo dicono in modo conciso. se la mia lettura non è errata, appartengono a noi.
*Those Evenings of the Brain* (Quelle notti della mente, Emile Dickinson).”

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[We grow accustomed to the Dark-] – Emily Dickinson

We grow accustomed to the Dark –
When Light is put away –
As when the Neighbor holds the Lamp
To witness her Good bye –

A Moment – We Uncertain step
For newness of the night –
Then – fit our Vision to the Dark –
And meet the Road – erect –

And so of larger – Darknesses –
Those Evenings of the Brain –
When not a Moon disclose a sign –
Or Star – come out – within –

The Bravest – grope a little –
And sometimes hit a Tree
Directly in the Forehead –
But as they learn to see –

Either the Darkness alters –
Or something in the sight
Adjusts itself to Midnight –
And Life steps almost straight.

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Ci abituiamo al buio
Quando la luce è messa via
Come quando la vicina tiene la lampada
A testimoniare il suo arrivederci

Un momento – il nostro passo incerto
per la novità della notte
Poi la nostra vista si adatta al buio
e incontriamo la strada – eretti

E così è per più grandi oscurità
Quelle tenebre della mente
in cui neppure la luna manda un segno
O una stella appare – dentro

I più coraggiosi brancolano un pò
e talvolta picchiano contro un albero
In piena fronte
Imparando così a vedere

Che sia l’oscurità ad alterarsi
o qualcosa nella vista
Che si regola alla mezzanotte
E la vita quasi cammina dritta

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Realtà, inganno e manipolazione


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Questa bellissima ed illuminante immagine è assolutamente una fotografia della realtà, di ieri, di oggi e non sappiamo se di domani,
le parole di Kundera lo sono altrettanto;
una realtà molto amara, purtroppo;

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“Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria.
Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia.
E qualcun’altro scrive loro altri libri, li fornisce di un’altra cultura, inventa per loro un’altra storia.”

(Milan Kundera)

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“Oggi i sondaggi dell’opinione pubblica, come le notizie della televisione, sono completamente integrati nella nostra società.
In meno di ventiquattro ore, si può fare uno “studio scientifico” su ciò che si ritiene la gente dica su un certo argomento.
Dopo aver studiato i numeri dei sondaggi americani, gli studiosi sono arrivati alla conclusione che la gente adegua il proprio comportamento all’opinione prevalente; la gente è infatti talmente diretta e influenzata dai sondaggi che non oserebbe spezzare questo contratto sociale; deve fare ciò che gli altri pensano si debba fare, perchè l’agire al contrario le provocherebbe sofferenza psicologica.
Se vogliamo far credere qualcosa alla gente, tutto quello che dobbiamo fare è organizzare un sondaggio su una determinata affermazione e poi fargli pubblicità, preferibilmente in televisione.”

(Daniel Estulin – L’Istituto Tavistock)

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 ( tratta dalla pagina Fb di    Realtà, inganno e manipolazione )

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GRAMMATICHE DELLA CREAZIONE


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Oggi vi propongo un testo di quelli che si possono definire “tosti”;
in realtà è solo una prima parte di un capitolo di un libro scritto da un “emerito” in campo culturale con uno spiccato interesse rivolto al rapporto tra potere, barbarie e cultura ed anche studioso del ruolo dell’intellettuale (dell’artista ma anche del critico) in una società come quella occidentale, scossa da parecchie vicende, alcune veramente disumane;

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In una intervista l’autore ebbe a dire : “Sono convinto che da anni la nostra civiltà sia intrappolata in una serie ininterrotta e violenta di crisi, passando da quella che era l’ identità di una cultura dominante alla post o sub-cultura odierna.
Stiamo assistendo a una demolizione progressiva del linguaggio travolto dall’immagine, soprattutto da quella telematica.”

Ecco che allora le riflessioni ed i testi da me postati nei giorni precedenti (riguardanti il “linguaggio” nel mondo di oggi) trovano una connessione con le “visioni” di questo letterato;

la prima parte dello scritto è un po’ più “difficile” (almeno per me) ma riesce a far capire il senso del pensiero, crea i presupposti per comprendere la parte finale, quella che più mi coinvolge, e non solo perché a me maggiormente comprensibile, ma per la condivisione totale di quanto espresso;

L’argomento “danni” è un passaggio fondamentale nell’analisi dell’Uomo di oggi : di quelli che ha provocato (a se stesso, ai suoi simili, alla sua “casa”) e di quelli appunto che ha subito;
danni diretti ed indiretti, materiali ed immateriali;
ed ecco evocate parole quali “superfluo”, “indigenza”, “spreco”, “ricchezza e miseria”, “armi”, “morte” …

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“Vi è una dinamica di lucida follia nel nostro modo di sprecare ciò che rimane delle risorse naturali, della fauna e della flora” è esattamente anche il mio pensiero, come pure l’idea di un ritorno alla umana bestialità primordiale ed al possibile e probabile “tramonto” della etnia “sapiens” :
millenni di “evoluzione” stanno per essere spazzati via da pochi decenni di “involuzione” causata da una religione nuova (peggiore di tutte le pur nefaste religioni preesistenti) che ha come suo principale  “satanico sacerdote” la Finanza !
la “nuova Creazione” del XX° secolo ha visto infatti come artefice il “Dio Denaro” !!!

Claudio

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Il libro in questione è:
GRAMMATICHE DELLA CREAZIONE
ed è stato scritto nel 2003 da George Steiner (Parigi 1929), figura di primo piano nella cultura internazionale nonché docente di Letteratura comparata in varie università: Princeton, Stanford, Chicago, Cambridge, Oxford e Ginevra.

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“Siamo stati a lungo ospiti della creazione, e io credo che lo siamo ancora.
Al nostro ospite dobbiamo la cortesia del domandare”
George Steiner

CAPITOLO PRIMO

Non abbiamo più inizi.
‘Incipit’, la nobile parola latina che segna l’esordio, sopravvive nell’antiquata parola inglese ‘inception’ (dal latino incipere ndt).

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Lo scriba medievale segna la prima riga, il nuovo capitolo con una maiuscola miniata. Nel vortice dorato o carminio il miniatore inserisce bestie araldiche, draghi all’alba, cantanti e profeti. L’iniziale, che evoca l’inizio e la priorità gerarchica, è come uno squillo di tromba.
La massima – per niente evidente – di Platone proclama che fra tutte le cose naturali e umane, l’origine è la più eccelsa.
Nel mondo occidentale di oggi, i nostri riflessi e schemi di percezione sono orientati (osservate la presenza attutita della luce nascente in quel verbo) verso il pomeriggio e il tramonto. (Sto generalizzando. Tutta la mia argomentazione è vulnerabile e aperta a quelle che Kierkegaard chiamava *le ferite della negatività*.)

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Ci sono altri sensi della fine, altre ossessioni crepuscolari nella civiltà occidentale.
Le testimonianze fornite dalla filosofia, delle arti e dagli storici della sensibilità alludono a ‘ore di chiusura nei giardini dell’Occidente’ durante la crisi dell’ordine imperiale romano, nelle paure apocalittiche che precedettero il primo millennio d.C., in seguito alla peste nera e alla guerra dei trent’anni.
Per gli esseri umani, la decadenza fisica e la mortalità comune sono sempre state associate allo sfacelo, all’autunno e al calare dell’ombra.
I moralisti, già prima di Montaigne, facevano notare che il neonato è abbastanza vecchio per morire.

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Persino nel sistema filosofico più fiducioso e nell’opera d’arte più assertiva sono presenti un ‘memento mori’, un tentativo implicito o esplicito, di fermare il flusso del tempo fatale e l’entropia presente in ogni forma di vita.
E’ da questa lotta che il discorso filosofico e la generazione dell’arte derivano la spinta che li informa, la tensione irrisolta di cui la logica e la bellezza sono modi formali.
Il grido ‘il gran dio Pan è morto’ ossessiona anche le società che accomuniamo, forse in modo troppo convenzionale, con il fervore dell’ottimismo.
Ciononostante, secondo me, una stanchezza profonda caratterizza lo spirito della nostra epoca.

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La cronologia interiore e i contratti con il tempo che determinano così ampiamente la nostra percezione cosciente puntano verso un tardo pomeriggio ontologico, parte integrante, cioè, dell’essenza della struttura dell’essere.
Noi siamo o ci sentiamo ritardatari. Stanno già sparecchiando. ‘Si chiude signore e signori, si chiude’. Si avvicina il momento del congedo.
Tali percezioni sono ulteriormente rafforzate dalla contraddizione con il fatto che, nelle società dell’economia sviluppata, la durata e la speranza di vita aumentano.
Eppure le ombre si allungano.
Sembra che ci chiniamo verso la terra e verso la notte come piante eliotropiche.
Una sete di spiegazione, di causalità, è inerente alla nostra natura.
Vogliamo sapere ‘perché’.
Quale ipotesi concepibile può chiarificare una fenomenologia – una struttura di esperienza vissuta – così inafferrabile, così molteplice nelle sue manifestazioni, come ‘l’essere giunti al termine’?
Vale la pena fare queste domande seriamente, o sono solo fonte di chiacchere vacue? Non lo so con certezza.
La disumanità, per quanto ci insegna la storia, c’è sempre stata.
Non sono mai esistite le utopie, le comunità fondate sulla giustizia e sul perdono.
Le nostre preoccupazioni attuali – per la violenza urbana, le carestie nel cosiddetto Terzo Mondo, la regressione verso barbari conflitti etnici, la possibilità di malattie pandemiche – vanno viste sullo sfondo di un periodo abbastanza eccezionale.
[…]

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Non abbiamo nemmeno cominciato a valutare i danni inflitti all’uomo
– in quanto specie autodefinitasi ‘sapiens’ – dagli avvenimenti successivi al 1914.
Né afferriamo la coesistenza spaziotemporale, resa più immediatamente percebile dallla rappresentazione grafica e verbale nei mass media globali, tra una civiltà occidentale del superfluo e la carestia, l’indigenza e la mortalità infantile che colposcono oggi i tre quinti dell’umanità.
Vi è una dinamica di lucida follia nel nostro modo di sprecare ciò che rimane delle risorse naturali, della fauna e della flora. […]
La violenza, l’oppressione, la schiavitù economica e l’rrazionalità sociale sono state endemiche attraverso tutta la storia, sia tribale che metriopolitana.
Ma per via della dimensione dei massacri, del contrasto demenziale fra la ricchezza disponibile e la miseria reale, per via della possibilità che le armi termonucleari e batteriologiche eliminino l’uomo e/o il suo ambiente, il Novecento ha dato una nuova giustificazione alla disperazione.
Ha reso possibile un’inversione dell’evoluzione, un ritorno alla bestialità.
E’ questo che fa della ‘Metamorfosi’ di Kafka la favola chiave della modernità o rende plausibile, in barba al pragmatismo anglosassone, la famosa affermazione di Camus: La sola questione filosofica seria è quella del suicidio.

FINE PARTE PRIMA

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