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“Nessuna società è giusta, non importa quali siano le sue intenzioni né quali siano le sue affermazioni utopiche e libertarie, se le donne e gli uomini che vivono in essa non sono liberi di esprimere le loro opinioni”
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vorrei sottoporti i ‘motivi’ che hanno spinto un notissimo giornalista americano, I.F. Stone a scrivere, in vecchiaia, un libro:
IL PROCESSO A SOCRATE
Perché una democrazia condanna a morte un filosofo?
edito nel 1990.
Qui viene spiegato come funziona il principio di causalità che è necessario, se non addirittura indispensabile, per ‘comprendere’ fino in fondo gli accadimenti.
Nulla accade senza una causa e non ha senso discutere dell’accaduto segna cognizione di causa (come si usa dire) cioè senza la ricerca delle motivazioni vere che hanno portato a quell’evento … in caso contrario si disquisisce di “aria fritta”.
Stanilasw Lech disse: “Se si vuole raggiungere la fonte, bisogna andare contro corrente”.
E’ ovvio ma, a quanto pare, non per tutti …
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dalla Prefazione di I. F. Stone che cerca di spiegare perché questo libro è stato scritto.
“[…] Nessun libro può essere veramente compreso se l’autore non rivela il motivo che lo ha spinto ad affrontare un’umpresa tanto ardua.
Come mai, dopo una vita dedicata al ‘giornalismo scandalistico’ – come viene definito un giornalismo imparziale e critico – sono stato attratto dagli studi classici e dal processo a Socrate?
Quando l’angina pectoris, alla fine del 1971, mi costrinse a rinunciare allo ‘I.F. Stone’s weekly’ (un settimanale scritto e pubblicato in proprio che commentava con spirito di indipendenza e anticonformismo i principali temi politici e sociali della vita nazionale e internazionale ndr), decisi di impegnarmi in uno studio sulla libertà de pensiero della storia umana: non libertà in generale che presenta troppe ambiguità e che potrebbe anche essere identificato con la libertà del forte di sfruttare il debole, ma la libertà di pensiero e di parola.
Questo progetto traeva origine dalla convinzione che nessuna società è giusta, non importa quali siano le sue intenzioni né quali siano le sue affermazioni utopiche e libertarie, se le donne e gli uomini che vivono in essa non sono liberi di esprimere le loro opinioni.
Speravo che uno studio di questo tipo potesse aiutare una nuova generazione (!) non solo a difendere la libertà di parola dove già esiste – ed è costantemente minacciata per ragioni sia buone che cattive – ma anche aiutare i dissidenti del mondo comunista a trovare la strada verso una sintesi libertaria di Marx e Jefferson.
[…]
Non ho mai perso l’interesse per la storia e la filosofia e mi sono volto nuovamente ad esse.
Ho cominciato le mie ricerche sulla libertà di pensiero studiando per un anno le due rivoluzioni inglesi del XVII secolo, che hanno avuto un ruolo tanto importante nello sviluppo del sistema costituzionale americano.
Mi sono reso conto che non potevo comprendere veramente le rivoluioni inglesi del XVII sec. senza avere una conoscenza più approfondita della Riforma protestante, e lo stretto rapporto tra la lotta per la libertà religiosa e qulla per la libertà di espressione.
Per capire la Riforma era necessario andare ancora più indietro, sondare i suoi fermenti ondagando sugli ardimentosi pensatori del Medioevo che avevano posto le basi del libero pensiero.
Ciò natualmente era strettamente connesso con l’impatto prodotto in Europa occidentale dal XII sec. dalla riscoperta di Aristotele, attraverso le traduzioni e i commenti arabi e ebraici.
Ciò conduceva ancora più indietro, a quelle che sono le fonti di questi influssi libertari nell’Atene antica, la prima società dove la libertà di pensiero e di parola era fiorita a un livello mai conosciuto prima e in seguito raramente eguagliato
[…]
Scoprii ben presto che non esistevano fonti tradizionali, sul tema della libertà di pensiero nell’antichità classica.
Quasi tutti gli argomenti degli studi classici erano sommersi da una massa di feroci polemiche.
Le nostre conoscenze assomigliano a un gigantesco ‘puzzle’, molte parti del quale sono andate perdute per sempre.
Studiosi di uguale valore sono capaci di immaginare, sulla base dei frammenti rimasti, ricostruzioni contrastanti du una realtà ormai svanita.
Queste ricostruzioni tendono a rispecchiare i preconcetti con i quali i diversi studiosi hanno intrapreso il loro lavoro.
Allora ho cominciato a studiare le fonti direttamente.
Così mi sono reso conto che nion si potevano trarre deduzioni valide sul piano politico o filosofico basandosi sulle traduzioni, non perché i traduttori fossero incompetenti ma perché i termini greci non erano perfettamente congruenti con i loro equivalenti inglesi o italiani.
Il traduttore è costretto a scegliere una delle numerose approssimazioni possibili. Per capire un termine greco di tipo ‘concettuale’, si doveva almeno imparare abbastanza greco per potersi confrontare con esso nella lingua originale, poiché solo nell’originale si potevano afferrare appieno le implicazioni potenziali e le particolari sfumature de termine.
Come si può comprendere la parola ‘logos’, per esempio, sulla base di una qualsiasi traduzione inglese, quando la definizione di questa celebre parola, in tutta la sua complessità e nella sua eoluzione creativa, richiede più di cinque colonne in carattere piccolo nel massiccio Greek-English Lexicon?
In questa parola sono racchiusi mille anni di riflessione filosofica: in Omero significa ‘discorso’; assume poi significato di Ragione (con la R maiuscola, come principio dominatore divino dell’universo) negli stoici, e finisce per significare, nel Vangelo di san Giovanni, il verbo creatore di Dio, il suo strumento nella Creazione, con un prestito generoso dalle fonti bibliche.
[…]
Decisi di imparare un po’ di greco, quanto bastasse per affrontare i termini concettuali direttamente dall’originale.
Ho cominciato da solo, con una edizione con testo a fronte del Vangelo di san Giovanni; poi sono passato il primo libro dell’Iliade.
Ma lo studio del greco mi ha portato presto molto lontano, fino ai poeti greci e alla letteretaura greca in generale: questa esplorazione continua a essere per me una grande gioia.
Ma più mi innamoravo dei greci, più straziante diventava lo spettacolo di Socrate di fronte ai suoi giudici.
Mi faceva orrore come fautore delle libertà civili, scuoteva la mia fiducia di stampo jeffersoniano nell’uomo comune.
Era un marchio d’infamia per Atene e per la libertà di cui essa era simbolo.
Come aveva potuto una società così libera processare Socrate?
Come aveva potuto Atene tradire se stessa?
Questo libro è frutto di quel tormento […]”.
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