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Terzo capitolo
Tra due estremi
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La filosofia e il senso comune hanno di norma privilegiato il momento della morte e ridotto la nascita o a una questione di ostetricia, di separazione nel parto di due corpi, quello della madre e quello del bambino; oppure, alla maniera di Lucrezio, a un tragico naufragio (nella variante agostiniana: all’essere “gettati nei flussi del tempo” e, nella ripresa compiuta da Heidegger, a una “gettatezza”, Geworfenheit), che non riguarda il solo momento del venire al mondo: lo spaesamento esistenziale continua lungo l’intera vita di ciascuno, serrata tra i due margini della finitudine, la nascita e la morte.
Dal punto di vista storico e culturale, il motivo per preferire la morte alla nascita è facilmente intuibile.
Tutte le religioni e le concezioni del mondo affondano le loro radici nella comune esperienza della morte altrui e dell’attesa della propria, ma è stata la filosofia occidentale, da Platone a Heidegger, ad aver posto la preparazione alla morte al centro delle proprie meditazioni. Melete thanatou, Respice finem, Sein-zum-Tode sono state a lungo le sue parole d’ordine, isolatamente contrastate da pensatori, come Spinoza, che considerano la filosofia “meditazione della vita, non della morte”. Si è così sacrificata la natalità alla mortalità, anche se lo stesso Lucrezio, per eliminare la paura e le superstizioni riguardanti l’al di là, aveva stabilito la simmetria tra il niente per noi di prima della nascita e il niente che ci sarà dopo la morte (confinando così la vita umana tra due naufragi, il secondo più dolce del primo, giacché interrompe le inevitabili sofferenze cui si è comunque soggetti).
(segue)
Remo Bodei
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